Approfondimenti
ABC del Carnevale in Sardegna e dei riti sciamanici
Gran parte delle manifestazioni carnevalesche del Centro Sardegna, cominciando dalla Sartiglia, passando per la Barbagia e terminando con i Mamuthones, sono arcaici allestimenti collettivi dedicati al rinnovo del ciclo annuale della Natura, al cui centro stava una spettacolare esibizione magica interamente protesa ad invocare la pioggia. Tutta la popolazione ne era coinvolta, a nessuno era concesso sottrarsi, perché l’annata agraria, i pascoli, lo stesso destino del villaggio, erano legati indissolubilmente ai buoni pronostici di questa recita fertilistica, nella quale la collettività interpretava dei ruoli fissi entro un canovaccio immutabile, sia pure nella variabilità dei gesti e delle espressioni individuali.
Fatto singolare, è proprio su Cumpunidòri a svelare, nella solenne fissità dei gesti rivolti al popolo, la reale natura dello sciamano. Il ruolo dello sciamano è assai poco percepibile nella cultura sarda, se non decifrando un concetto pervenuto tra i contemporanei come aggettivo dai connotati meschini, miserandi, ridicoli: su maccu. In questo capovolgimento e affossamento sociale percepiamo l’ovvia intromissione del clero bizantino, che nei “secoli bui” della storia sarda produsse a forza un’autentica catastrofe linguistica e comportamentale, trascinando nel fango e nell’indecenza “carnascialesca” i solenni e complessi rituali sacri d’un intero popolo.
MACCU. Sappiamo quali origini abbia la parola sarda connotante lo “scimunito, pazzoide”. Con esso Plauto (256-184 a.e.v.) creò persino il nome d’un personaggio delle Atellanae, Maccus, una specie di Pulcinella, un imbecille cui piaceva mangiare e divertirsi, sempre al centro di avventure e intrallazzi dei quali spesso rimaneva vittima, seduttore-sedotto, truffatore-truffato. Quel prolifico nome mediterraneo, preesistito a Plauto, diede anche vita ai termini italici maccherone e macchietta, connotanti le persone soggette ai lazzi ed alle scurrilità altrui. Invero nelle relazioni interpersonali è sempre stato difficile sottrarsi ad un destino di vittima, allorché il portamento, le intenzioni, il carattere, l’espressione dell’individuo danno facile stura alle prevaricazioni del branco. Maccus, sardo maccu, ha base etimologica nell’accadico mākum, makû(m) “esser carente, privo di, aver bisogno”, makû “essere assente, mancare di qualcosa o di tutto (anche nella mente)”. In sardo settentrionale si dice mancanti per “pazzo”, letteralmente “privo di comprendonio”. Da tale base linguistica sortì la figura delle Atellanae e la stessa figura sarda, la quale è molto arcaica, esistente da millenni prima del personaggio letterario italico. Ci vuole poco a mettere in relazione l’accadico mākum “carente, privo” con l’accadico maḫḫûm “estatico, profeta”, da maḫûm = “furoreggiare, entrare in trance”. Nell’alta antichità evidentemente la gradualità dei comportamenti personali si stagliava in un’ampia fenomenologia del possibile, come oggi, ma nel far salve le vere e proprie “macchiette” ammesse al ludibrio, allo scherno, o allo scherzo bonario, si condivideva un limite, oltre il quale germogliava periodicamente il mistero e l’autorità d’una figura rispettata e protetta, destinata ad assurgere a profeta della collettività. Fenomeno noto anche agli Ebrei, a chiunque nel Mediterraneo, e che nell’isola di Sardegna fornì le personalità adatte al ruolo della sibilla o delle altre funzioni sacerdotali. Visto sotto questo aspetto, su maccu nell’alta antichità non fu altro che la figura altrove detta mágos.
MAGOS è termine greco indicante “colui che esercita la magìa”. Il termine appare nell’italiano nel 1300 con Dante. Riproduco l’indagine fatta dal Dizionario Etimologico della Lingua Italiana: «Vc. dotta, lat. măgu(m) dal gr. mágos, per Erodoto ‘sacerdote persiano che interpreta i sogni’, un prestito dalla stessa lingua dei Persi (già nelle iscrizioni cuneiformi), per i quali maguš era denominazione propria alla sfera della religione e del culto, ancora priva, però, di etimologia. Anche il tardo der. lat. magīa(m) (in Apuleio già col senso di ‘stregoneria’) riproduce il gr. magéia ‘l’arte dei magi persiani’, e così pure l’agg. măgicu(m) ripete il gr. magikόs». La lingua persiana era a contatto con quella accadica, ed è proprio nel cuneiforme che troviamo le basi più antiche del termine: maḫḫu “esaltato”, maḫḫû(m) “estatico, profeta”, mâḫum “uscir fuori (di sé), dipartirsi” (dell’estatico), maḫû(m) “diventare frenetico, delirare”. E così approdiamo alla pioggia e al personaggio detto Cumpunidòri.
CUMPUNIDÒRI. Questo nome sacro del Carnevale di Oristano è legato alla pioggia invernale, ed ha base etimologica nell’accadico kuppu-nīdu-ri (suff. d’agente -òri ed epentesi paronomastica -m-). Kuppu in accadico è “sorgente d’acqua”, nīdu è “cumulo, nuvola”. Cu(m)punidòri significa “colui che fa sgorgare acqua dai cumuli-nembi”. Egli è il mago della comunità, è lo sciamano, il profeta che va in estasi: è su maccu.
PIPPIA de MÁJU. Ecco svelato l’arcano de sa Pippìa de Máju. Su Cumpunidòri tiene nella destra un piccolo scettro, sa Pippìa de Máju, agitata in atto benedicente. La base etimologica di máju sta nell’accadico maḫḫu “estatico, profeta, sciamano”. Con quella pippìa, su Cumponidòri (su maḫḫu) benedice veramente la folla, ma un tempo aspergeva acqua benedetta. Su maḫḫu fu poi dissacrato dai preti bizantini, e divenne maccu “matto, scemo”, nome che torna a fare buona compagnia al Maccus plautino. Anche sa pippìa ha basi accadiche, da pīum, raddoppiato in termini sacrali: pī-pīum = “apertura, sorgente” di fiume, di cateratte del cielo. Quindi sa Pippìa de Máju indicò la “apertura delle sorgenti (celesti) ad opera del profeta”. Mentre in epoca bizantina fu ridotta a pippìa, ossia a “bambina”, rendendo l’evento incompreso. A Pozzomaggiore, guarda caso, abbiamo sa Pippìa e mannághe (portata in processione durante le siccità) dall’accadico manû “recitare inni, incantesimi” + agû “ondate, profluvi d’acqua”. Mannaghe significò “inno-incantesimo della pioggia”. Pippìa de mannaghe indicò la “apertura (delle cateratte a causa) dell’inno-incantesimo della pioggia”.
SARTÌGLIA è il più celebre palio della Sardegna, che si celebra ad Oristano per due volte al termine del Carnevale. I cavalieri con maschera androgina, in costume medievale, a corsa sfrenata, tentano d’infilzare una stella d’argento forata al centro. Gli Spagnoli trasformarono il rito agrario originario, con al centro il Dio della Natura dispensatore della pioggia benefica, in una moderna gara all’anello. Considerato il suffisso -glia, -lla vagamente spagnolo, i linguisti delle Università pensano che Sartìglia derivi dallo spagnolo sortija “anello”, a sua volta dal lat. sorticula “anello” (?), diminutivo di sors “sorte, fortuna”. Ci sarebbe da chiedersi, a questo punto, perché in Spagna non sia rimasta la finale -lla e proprio in Sardegna, per eccesso di zelo coloniale, abbiano deciso di spagnolizzare il proprio lemma. Wagner non si sbilancia tanto, e addirittura ignora il termine, citandone però uno affine, sartillu < spagnolo saltillo “giuoco di carnevale”: si appende una gallina ad una corda tesa attraverso la strada, e correndo col cavallo se ne strappa il collo.
La Sartiglia è una forma di Carnevale, è un palio. Un palio, una gara all’ anello. O perlomeno lo fu dal momento in cui l’uomo imparò ad andare a cavallo, a cavalcare e fare i giochi sul cavallo. Non c’è dubbio che l’attuale termine abbia somiglianza con quello spagnolo. Tuttavia “Sartiglia” ha una base sumerica, deriva dal sumerico “šar” (cerchio) + “til”(palo): significa “cerchio del palo”.
Vedi anche:
Magia e misteri: chi spaventa(va) il Potere
Le metamorfosi del misticismo in Sardegna
La Maschera, dal Neolitico ad oggi: Marija Gimbutas e Mircea Eliade
E il documentario “Sardegna Tempio delle Acque”: