Approfondimenti
ALCUNE ETIMOLOGIE da “MONOTEISMO PRECRISTIANO IN SARDEGNA”

Vale la pena citare Ζεῦς, ‘Dio’ per antonomasia, che fu il massimo dio dell’Olimpo. Figlio di Crono e Rea e fratello di Poseidone, Ade, Estia, Demetra, Era, egli apparve in Grecia come il padre degli déi e degli uomini. Ma il suo apparire a capo di un pantheon ci porta intorno al 1200 a.e.v. (Iliade), allorchè il nome di Déus/Zéus stava circolando per il Mediterraneo da millenni.
In verità, il sardo Déu è panmediterraneo, pronunciato in Grecia Zéus, in Sardegna Déu, a Roma Deus. Il termine sardo è a dir poco coevo a quello greco e al lat. deus, ma la realtà è un’altra, poichè le prove linguistiche ne confermano un’antichità molto più remota. Il termine pansardo, assieme a quello greco e latino, ha un’arcaica base nel sum. de ‘creare’ + u ‘totalità, universo’: de-u, col significato originario di ‘Creatore dell’Universo’. Che poi il skr. deva ‘dio’ abbia la stessa radice sumerica, è ulteriore indizio che fu proprio il bacino sumerico a irraggiare il concetto del Principio Universale. Vale la pena aggiungere che dalla base di ‘splendore’, de ‘creatore’ i Sumeri forgiarono un proprio termine per nominare propriamente Dio, ed è dingir, di-ĝir, che significa esattamente ‘Dio dei Sumeri’ (dove di significa ‘Dio’, ĝir significa ‘autoctono, nativo’ ossia ‘Sumero, colui che vive nella terra di Sumer’).
Non è vero che il gr. Zεύς trascriva la z- da una *dy- indoeuropea (Rendich, LI), invece la trascrive direttamente dal sumerico d-. Nel quadro dei confronti paralleli fu portata confusione dall’intromissione del lemma greco θεός ‘dio’, poichè non si è voluto render conto che θεός non è nome proprio ma nome di genere: indica qualunque dio del pantheon greco, dai quali si distingue propriamente Ζεύς col suo nome personale. Principalmente non si è voluto tener conto che il concetto greco di θεός è precisato dal collaterale verbo θέω ‘brillare, sfolgorare’: quindi θε- è forma distintiva (oppositiva) ch’esprime lo stesso concetto della radice sumerica di ‘sfolgorare’, cui si erano omologate le altre radici “indoeuropee” in dī- (es. lat. di-us), relative alla ‘luce del giorno’, allo ‘splendere, brillare, render chiaro’, che appunto hanno la base nel sumerico di ‘brillare, sfolgorare, to shine, to be bright’. Quindi il lat. di-us ‘luminoso, divino, del cielo’, di-es ‘giorno’, gr. dī-os ‘brillante, divino, celeste’ hanno la base nel sum. di ‘to shine, to be bright’ + u ‘universo’, col significato originario di ‘illuminare l’universo’; non sono quindi scomponibili in *d-ī, come pretenderebbero invece gli indoeuropeisti, che lo traducono bolsamente come ‘moto continuo (ī) della luce (d)’ (vedi Rendich), ossia in un modo che sta agli antipodi del pensiero scientifico.
PALU. Questa nona etimologia introduce un altro (?) nome di Dio. Riconosco che la mia proposta merita d’essere discussa e capita, poiché pare stravagante, o almeno mostra pochi addentellati rispetto a quanto sinora abbiamo visto per gli altri nomi di Dio.
Cionondimeno, vorrei intrudurla parlando della Grutta dessu Palu, che sta nel Supramonte di Urzuléi, lungo la Codula de Ilùne. L’origine più facile del termine Pálu sembrerebbe essere, a prima vista, il lat. pălŭs ‘palude’. Ma questo in Sardegna sarebbe inaccettabile: l’esito sardo di pălŭs, palūdis è paùli, non palu. Il sardo palu significa più precisamente ‘pendio montano’ (per es. in Anglona), mentre in Ogliastra si preferisce la forma femminile pala. Ma pure tale significato è da rifiutare. Non mette nemmeno conto considerare il termine akk. palāšu ‘perforare, bucare (parete, roccia)’ con riferimento alla celebre grotta di Su Palu, appunto.
Resta in piedi l’unico termine accettabile, che è palu < lat. pālus, pālum ‘palo’ < akk. palûm (a staff, un bastone). Ma sorge un’obiezione metodologica, perché questo significato appare fuori dagli schemi. Quindi per la quarta volta ci sarebbe da opporre una ripulsa. A ben vedere, però, il lat. pālus significa anche ‘fallo’, gr. φάλλος. E nell’intendere ciò gli antichi Latini non operavano alcuna forzatura semantica, non giocavano con la magia della metafora. È che le forme d’adorazione dell’Essere supremo, del Supremo Fecondatore (fosse egli chiamato Giove o Zeus o Baal) erano espresse col Palo in tutto il mondo conosciuto, dalla Mesopotamia sino alla terra di Canaan sino all’intera Italia, ed anche in Sardegna (ricordiamo le ligna et lapides di Gregorio Magno). In Atene le processioni del Phállos furono così importanti da generare persino una forma letteraria d’importanza universale: la tragedia.
In Italia l’antica Processione dei Falli ha mutato nome (si è… imborghesita) e, cristianamente, è divenuta la Processione dei Ceri, rimasta vivissima a Gubbio ma principalmente a Sassari (oltrechè a Nulvi, Mores e Iglésias). I Ceri in realtà sono di legno (ad Atene erano già di legno, sono stati sempre di legno: legno di fico; anzi si preferiva scolpire direttamente il fico in forma fallica, considerato che questo era il fruttifero più importante della civiltà greca).
In Sardegna dobbiamo supporre che le Feste Falliche fossero tenute vive un po’ dappertutto, ma specialmente nella città “tharrense” di Tyrris Libysonis, prima e dopo la rifondazione romana. Solo così si spiega perché i Sassaresi (che sono i fuggitivi di Tyrris Libysonis) conservino ancora come reliquia d’incommensurabile valore la loro Fełstha Manna, ossia la Faraḍḍa, che è una delle processioni laiche più spettacolari dell’intero Mediterraneo.
Potremmo quindi dare a Palu l’ultimo significato ammesso, anzitutto perché l’acqua della Codula d’Ilùne, proprio nel sito di Su Palu, viene “inghiottita”: e ciò ha un significato sacro d’altissimo valore. E poi perché la celebre Grotta (una delle più importanti d’Italia) non sta proprio sul ‘pendio montano’ (che è il secondo significato espunto) ma è prossima alla repentina sparizione del corso d’acqua di questa códula. Rimando al lemma Teletottes (= ‘fiume che va sotto’) per capire l’importanza del più ampio sito così chiamato1, vicino al quale sta anche la grotta e lo scenografico inghiottitoio, costituito da un laghetto che recepisce il fiume sempre in piena, inghiottendolo; e un metro oltre comincia l’aridità totale della golena, che rimane tale sino al mare. Gli antichi vedevano in ciò il Sacro Sperma che penetra nel mistero della Sacra Vagina. Ci sono tanti elementi, dunque, per affermare che in questo luogo s’adorava il Palo, l’albero scorticato (e forse effigiato) a forma di fallo, che poi era l’effige di Ištar, la dea fenicia dell’amore, che presiedeva anche alla prostituzione sacra.
Sa Grutta dessu Palu era, evidentemente, un altro dei non pochi siti sardi nei cui pressi veniva praticata quella strana forma di culto naturalistico dedicata ai Genitori dell’Universo.
A proposito di Ištar-Tanit, che era la compagna di Baʽal, va sottolineata questa singolare attestazione del suo simbolo, il fallo, che è prettamente maschile. Ma ciò detto, non si può sottovalutare, in questa ricerca etimologica, proprio il nome del dio Baʽal; immagino che il toponimo Palu indicasse direttamente questo Dio, attestato in Sardegna. Egli, particolarmente onorato in Cartagine dal V sec. a.e.v. assieme alla compagna Tanit, fu onorato pure in Sardegna allo stesso modo. Onde sembrerebbe sotteso proprio il suo nome in tutti i toponimi o nomi sacri che lo echeggiano in Sardegna, a cominciare dal dorgalese (Nostra Sennora de) Balu Irde o Palu Irde, che è la Madonna di Valverde. Quel Valverde, tipico delle chiese campestri dove si adora una Madonna cristiana sconosciuta fuori dell’isola, non è altro che la paronomasia di Baʽal Irdu (akk. Bēlu Irdu, Bēlu Išdu), un epiteto sacro col significato di ‘Signore Base-del-Cielo’, ‘Baal Base-del-Cielo’.
BAʽAL. Gli altri nomi di Dio reperiti nell’antica Sardegna sono di evidente importazione. Ciò vale ad esempio per Baʽal, che è il nome di Dio attestato un po’ in tutto il Vicino Oriente: in arabo, ugaritico, fenicio, punico, aramaico, nabateo, palmireno, amorrita, babilonese, accadico. In ug. fa bʽl ‘signore, proprietario’, in amorrita baʽlum, in bab. ba’lu ‘grande, maggiore’, in akk. bēlu ‘signore, proprietario’, e così via. Questo Dio, particolarmente onorato a Cartagine dal V sec. a.e.v. assieme alla compagna Tanit, fu onorato pure in Sardegna, e suppongo che la sua massima penetrazione in terra sarda avvenne proprio in epoca cartaginese.
Va da sé che tale nome di Dio fu gestito anzitempo già dai navigatori Sardo-Fenici, che per parecchi secoli condussero i traffici tra la Sardegna e il Vicino Oriente. E poi rimase talmente concrezionato nel sistema culturale sardo, da aver dato persino dei cognomi. Abbiamo ad esempio Devaddis, cognome da sciogliere in de Vaddis riconducendolo al cognome citato nel condaghes di Silki, Trullas, Salvennor come de Valles e de Balles (Trullas). Questo cognome quindi è un patronimico, indica la filiazione da Balles, o indica direttamente il cgn Balles (De Balles, poi De Valles = ‘dei Balles’, ‘dei Valles’). È chiaro che il cognome a sua volta era già corrotto al momento della sua redazione nei condághes. Sicuramente l’origine del cognome è sardiana e pure mediterranea, e indicò il dio fenicio Baʽal (Bʽl) con base nell’akk. ba’ālu, balû ‘supplicare’, ugaritico bʽl ‘signore’. Da ba’ālu si ebbe *Balle, Balles, ed anche il cgn italianizzato Valle, Devalle, Della Valle.
A mio avviso, fu così espanso e generale il nome del dio Baʽal, che pure il toponimo Paláu (comune della Gallùra) lo ebbe per antonomasia. Paláu è da confrontare con Balláo, altro nome di villaggio sardo. Vedi anche Punta Palái nella catena del Márghine, e Peláu (idronimo dell’Ogliastra). Ma vedi pure Baláy, antico nome di Balláo e nome del promontorio dove furono giustiziati i protomartiri turritani Proto, Gavino, Gianuario.
In catalano palau significa il ‘palazzo’, ma è improbabile l’abbinamento di questo lemma con i toponimi sardi affiancabili a Baʽal (Bʽl).
Conosco la topografia del territorio di Paláu, a cominciare dalla celebre statua naturale dell’Orso. Il suo porto naturale e le sue alture litoranee, ammantate d’un fascino struggente, non poterono essere state ignorate dai naviganti. Si sa che i Fenici, sia pure quando non lasciavano tracce, navigavano tutt’attorno alla Sardegna per commercio, ed avevano la sana abitudine di depositare sulla spiaggia o sul “molo” la propria merce, risalendo sulla nave ed attendendo educatamente che gl’indigeni s’avvicinassero e lasciassero oro, argento o altra merce di baratto. Scendevano nuovamente, e risalivano a bordo varie volte, in mutuo (e muto) accordo con gl’indigeni, sino a che non si raggiungeva un ragionevole equilibrio tra il valore intrinseco della merce e quello datogli dagli acquirenti. Poi ripartivano (Erodoto). Ma se vedevano che il sito era degno del loro Dio, allora gli erigevano un tempio, senza lasciare gente, e se ne andavano, sicuri che gl’indigeni risparmiavano religiosamente la nuova struttura. Orbene, se i Fenici (ed i Sardi) erano di tal fatta, è facile ammettere che la radice del toponimo Paláu sia identica a quella di Balláo, di Baláy, di Palái, perch’erano tutti siti degni di conservare un tempio a Baʽal. Peraltro possiamo sempre ammettere una sovrapposizione fono-semantica alla forma Baʽal del più antico akk. palaḫu ‘onorare, venerare’.
CAZZU è il nome sardo del membro virile, uguale all’it. cazzo, del quale, nonostante profusione di sforzi, nessun linguista ha mai trovato l’etimo. A nulla è valso che tale nome avesse dilagato nella cronaca italiana già nel ‘300. Nel 1266 Meo de’ Tolomei (è il primo della storia) appioppa spregiativamente ad Arco (Trento) il soprannome di Medium Cazum. A Prati si fa derivare cazzo dall’ant.it. cazza ‘mestola’. E per tutta Italia si è cercato negli utensili o nei prodotti dell’orto, se non l’omofono, almeno lo strumento allusivo, che poi sono tanti. Soltanto con l’aiuto dell’accadico e delle altre lingue semitiche (ma anche di quelle germaniche) possiamo risalire all’etimo di questa parola… spirituale. Già: perché il triviale cazzo significa ‘effige di Dio’, ‘statua divina’. Oggi non più, beninteso. Ma quante parole antiche sono sparite, o sono state volutamente corrotte, o forzate a significare l’opposto ad opera di stuoli di sacerdoti cristiani? La storia delle religioni si scrive anche attraverso l’evoluzione dei vocaboli da esse utilizzati, modificati, conculcati. L’apostolo Paolo di Tarso fece scempio dell’antica lingua greca, forzandola a connotare tutt’altro, nientemeno che i pilastri filosofici e spirituali della nuova religione di Cristo. Sappiamo con quanta enfasi e con quale pertinacia papa Gregorio Magno nel VI secolo lottò contro gli infiniti residui del paganesimo. Le sue lettere riservate alla Sardegna sono esemplari di una lotta strenua e nascostamente feroce, che non si ferma davanti a nulla pur di redimere le popolazioni, con le buone o con le cattive. E come non doveva autorizzare i suoi sacerdoti a dilaniare le vecchie religioni pur di mostrarle inferiori e diaboliche? Cominciando dal termine che designava Dio, beninteso.
I Sardi delle campagne (l’enorme maggioranza dei Sardi), ancora intrisi di cultura fenicio-ebraica (o cananeo-accadica) nonostante 700 anni di dominazione romana, avevano, tra le altre, una parola per nominare Dio, Déu, e noi la conosciamo attraverso le lingue semitiche e germaniche. God degli anglosassoni, Got degli antico-alto-tedeschi, Gott dei Tedeschi sono relitti dell’antica base corrispondente al babilonese gattu che significa ‘immagine: della divinità’, ‘forma, figura, statua: con riferimento a Dio’. In accadico gattu, kattu significa ‘forma sacra, effige materiale, statua d’una divinità’.
Che il gatto indicasse direttamente su cazzu, ossia il ‘membro virile’ quale effige del Dio Sole, è dimostrato dalla lingua egizia, che indicò la ‘forma del Dio Sole’ con Qaṭ, corrispondente, anche nella fonetica, al sardo Cazzu.
In Sardegna, sulle selvagge montagne di Sìnnai, abbiamo la vetta Bruncu su Gattu, che col gatto non ha rapport, almeno nel senso attuale. Monte Attu esiste pure a Tortolì (oggi inglobato nella sua periferia). Punta su Attu c’è in territorio di Monti. Nel Supramonte di Orgòsolo abbiamo Punta Catzeddu ‘la cima del piccolo cazzo’, oronimo che proprio nel morfema denuncia un passato di compromessi. Orbene, nell’alto medioevo l’oronimo doveva essere Gattu/Cattu/Catzu, e divenne Catzeddu ‘piccolo membro’, ma anche ‘donnola’ (vista la forma…), come soluzione compromissoria che però soddisfaceva il clero, in quanto con tale connotazione l’idea di Dio era definitivamente abrasa… oltrechè violentata. Un altro oronimo lo troviamo sul monte Limbara, in Gallura, e siccome colà parlano l’antico italiano, il nome è Monti di Déu. Qui il compromesso è sparito, il vecchio nome babilonese è cancellato e soppiantato dal nuovo Dio. Com’è sparito a Gésturi, dove hanno il Nurag’e Déu, il ‘nuraghe di Dio’ (segno inequivocabile del fatto che proprio sui nuraghi veniva venerato dai nostri padri l’Essere Supremo). Ciò spiega pure un dualismo: in epoca cristiana il germanico guda è il nuovo “Dio”, mentre nell’antico islandese gud vale ‘idolo’ (segno d’una metamorfosi semantica non ancora consolidata).
Per capirci su tutte queste parole, richiamo l’azione di una base accadica dal significato di ‘protettore, vigile’: ḫa’īṭu ‘osservatore notturno’ (detto di dèi e démoni, che proteggono, si danno cura di), incrociatosi con akk. ḫadû ‘essere consenziente, essere ben disposto verso qualcuno’, ḫadû ‘consenso, gioia’, ḫadû ‘persona felice’. Tale lemma può essere senz’altro confluito nel bab. gattu, l’akk. gattu, kattu ‘statua o immagine della divinità’, diventato cazzu con una lenta corruzione semantica alla quale i monaci bizantini si devono essere applicati per secoli tra genti analfabete, convinte a guardarsi l’inguine con vergogna tutte le volte che dovevano riferirsi all’ancestrale Dio oramai demonizzato.
Non bastò l’induzione d’una nuova semantica nell’antico termine, fu necessario abbinarlo stabilmente all’idea del Diavolo. Talchè in Sardegna è del tutto usuale esclamare Cazzu Diàulu! ‘Cazzo Diavolo!’, col che si volle significare, in epoca bizantina, che l’effigie di Dio, il Cazzo, non era altro che il Diavolo, anzi che il vero nome del Diavolo era proprio Cazzo.
Sassari non smette ancora d’usare l’interiezione sacra per cui va famosa, ma i Sassaresi non ne conoscono più l’identità fono-semantica con gattu, kattu. È facile arguire come proprio dal sardo cazzu, termine “moderno” ignoto nella Penisola dove i Fenici non avevano messo piede, esso sia migrato dopo l’anno 1000 dapprima tra i Pisani ed i Genovesi, e poi tramite loro in tutta Italia. Il fatto che passassero due secoli perché il termine uscisse dai trivii ed andasse sulla penna degli scrittori meno inibiti, è normale.
Sin qui abbiamo fatto la storia del termine semitico gattu/qattu. Ma non abbiamo riferito alcunché sul gruppo o sui gruppi che veneravano il gattu. Chiaramente, la maggioranza erano di religione semitica (cananea). Ma in Sardegna dovevano esserci pure, coesi o meno, dei gruppi egiziani o “egittizzanti” trapiantati durante le numerose campagne dei Punici; oltre a questi possiamo considerare i 4000 ebrei-egizi trapiantati in Sardegna nel 19 e.v. Così come sono numerosi i toponimi, sparsi un po’ dovunque, denotanti una presenza ebraica già prima dell’era volgare, lo sono molto meno i termini egizi. Ma la frequenza del termine gattu ci lascia intendere che non solo gli ebrei ebbero modo di espandersi nell’isola, ma pure gli egizi che ne condivisero la sorte. E allora cominciamo con gli Egizi.
Celebre è il loro cosiddetto “pantheon”, nel quale è inserita pure la dea eponima Bubasti, propriamente Bastet. Era una dea-leonessa rappresentata più spesso con la testa di gatto, meno spesso con una effigie dagli indefinibili tratti misterici di gatta-leonessa (nel Museo Egizio di Torino si trovano statue di stupefacente bellezza). Nella strategica città deltizia di Tell Basta (la Bubasti del periodo classico, da Per-Bastet ‘il dominio di Bastet’), è dedicato a Bastet il lunghissimo tempio (due-trecento metri: non è stato possibile ricostruirlo bene) dove c’è pure il cimitero dei gatti. A Turris Libysonis (Porto Torres) un’ara circolare del 35 e.v., di notevole pregio artistico, è dedicata a Bubasti da un sacerdote addetto al culto della dea: C.Cuspius Felix sacerd(os), Bubasti sacr(um). Se così stanno le cose, allora il termine tardo-latino cattu(m) ‘gatto’ finì per connotare questa dea e questo culto che i preti cristiani demonizzarono appena possibile, facendo pure in modo che la commistione-sovrapposizione latino-accadica cattu-gattu s’accreditasse con forza, così da identificarla a un tempo con il gatto e con il membro virile che essi – pervasi di sessuofobia – indicavano come prodotto del Diavolo. Perché il membro virile? Veniamo alla seconda ipotesi, che a questo punto si confonde con la precedente. Il termine mesopotamico gattu ‘immagine della divinità’ non poteva essere espresso altrimenti che col membro virile: questo è certo. Ogni totem, ogni menhir, persino le colonne più antiche rappresentarono sempre e dovunque l’immagine del Dio-Toro che rende feconda la Dea-Terra, la Natura, la donna. La confusione e l’identificazione del termine qattu con l’effigie di Bubasti, con i menhir e con tutti i pali lignei della Sardegna fu evidentemente voluta. Da questa prevaricazione religiosa ci viene la possibilità di scovare l’etimologia dell’it. gatto, altrimenti oscura.
Cazzu Diáulu. Un’altra nefandezza – e concludo il paragrafo – è rivelata da quella che oggi è la nota bestemmia Cazzu Diáulu!
Essa, a intenderla bene, ci svela l’intero meccanismo ideologico che i preti bizantini inventarono per distruggere la struttura portante della religione precristiana dei Sardi. Poiché su Cazzu era l’effige di Dio, anzi impersonificava Dio medesimo anche attraverso l’immagine del gatto/Katze, occorreva capovolgere quella credenza, la si doveva demonizzare. E riuscirono nel loro intento, trasponendo addirittura Dio nel Diavolo in persona. Un capolavoro.
GIÀNA. Questo è uno strano appellativo. Lo si fa derivare dal lat. Diana, sbagliando. Sbagliano nel nome, non nel mito. Diana è un’antica divinità italica. A Roma fu la dea della luce (< dies), ed anche Giano ( < dies) fu l’originario dio della luce. Giano rappresentava il Sole, Diana la Luna. La base etimologica del termine è il sum. di ‘to shine, to be bright’ + an ‘sky, Dio del cielo’, col significato di ‘Dio del cielo brillante, splendente’. Per la discussione rinvio a Diana.
MINCA camp. ‘membro virile’; centr. mincra, log. mìncia. Wagner ritiene derivi dal lat. mentula, con vari passaggi che giustificano le tre forme sarde.
Invece l’origine del nome è egizia; delle tre varianti sarde mìncia, mìncra, mìnca, soltanto la forma meridionale è quella originaria: infatti ha la base nell’egizio Min-ka = Toro del dio Min’. Tale dio fu, nel pantheon egizio, l’entità generatrice, incarnata in un toro, rappresentata sempre con gli attributi itifallici che ne hanno facilitato l’identificazione col dio greco Pān. Ka, il secondo membro di Min-ka, indica, quale termine comune, il ‘toro’, ed esprime, nel suo significato essenziale, la ‘potenza generatrice’ e la ‘forza sessuale’ (Lefèbvre, Jacobson). Quindi si capisce che l’appellativo divino Minka dovette essere attribuito a molti figli maschi di origine egizia, ivi compresi i maschi di genitori emigrati.
In sardo il termine minca nel senso di ‘membro virile’ è sopravvissuto fino ad oggi. Questa sopravvivenza, di per se normale poiché si accompagna alle migliaia di altre sopravvivenze semitiche da noi recuperate con la nostra ricerca, ha un curioso parallelo nell’ebr. minchà (lett. ‘offerta’), la quale è la preghiera ebraica del pomeriggio, che si apre col salmo 84 e prosegue con un lungo passo tratto dai Numeri 28, 1-8 che parla dei sacrifici quotidiani.
Sembra di poter intravvedere, o almeno intuire, una perversa soddisfazione del clero bizantino della Sardegna – notoriamente sessuofobico al pari di tutto il clero cristiano delle origini – nel poter “relegare” l’epiteto sacro egizio Minka e l’omofona preghiera ebraica al solo significato di ‘cazzo’, di ‘membro virile’, cogliendo, come sul dirsi, “due piccioni con una fava” e sancendo chiaramente l’ennesimo oltraggio alla religione ebraica, col fine ultimo di ridicolizzarla, annientarla, cancellarla. Vedi pure mincidíssu.
MINCIDÍSSU camp. ‘demonio’. Questo lemma ha parecchie variabili, quali log. mintsídiu ‘provocazione, alterco, macchinazione’, mintsidiáre ‘provocare, attaccar brighe, seminar zizzanie’; camp. mincídiu ‘bugia’, mincidiόsu ‘bugiardo’, smincìri ‘sbugiardare’.
Secondo Wagner queste forme hanno la base nel’it. omicidio, passato attraverso forme di antico sassarese (Stat.Sass. III, 33 (92 r): tu de menthis). Ma la proposta del Wagner non ha nessun puntello, a ben vedere, essendoci una fortissima differenza semantica tra la supposta base ed i supposti derivati.
Le forme qui trattate hanno invece la base in una incredibile metamorfosi semantica voluta dai preti bizantini nel primo Medioevo, allorché la polemica antiebraica, per iniziativa dei Padri della Chiesa e dei primi concilii, era divenuta oramai parossistica. La forma di partenza è proprio il sardo minca, mìncia ‘membro virile’ (vedi), che si compose con la forma akk. deššû ‘eccessivamente opulento, dotato’, dīšu ‘sviluppo (del virgulto, della verga)’, dešû(m) ‘essere copiosamente dotato’, dēšû(m) ‘abbondante, fiorente’.
Ai preti cristiani della Sardegna non bastò quindi dissacrare la Minchà (lett. ‘offerta’: è la preghiera ebraica del pomeriggio, che si apre col Salmo 84 e prosegue con un lungo passo tratto dai Numeri 28, 1-8 che parla dei sacrifici quotidiani), facendone addirittura un cazzo; non bastò: si volle identificare la Minchà pure col Diavolo, e con blasfema doppiezza (riferita a un tempo al cazzo ed al Diavolo) si volle presentare la minchà come l’Essere infernale “molto grosso”, “fiorente”, “eretto” (dešû, dīšu) proprio come un cazzo.
ROSA cognome corrisp. al nome di uno dei fiori più belli del mondo, chiamato così anche in Sardegna, fin da tempi remoti, a dispetto di quanti ne marchino l’origine nel lat. rŏsa, il quale è semplicemente un nome mediterraneo e vicino-orientale alla pari di quello sardo. Tutti i linguisti indogermanisti richiamano come base del termine latino il gr. ρόδον, che non si capisce come possa esserne la matrice.
In verità il sardo (e latino) rosa ha la base nell’akk. rusû(m) (un genere d’incantesimo); l’ascendente sumerico è ru ‘architettura’ + sa ‘legame’, ‘rete (da caccia)’, col significato di ‘legame, rete (tramata) per legare’.
SPÍRITO. Vediamo se l’etimologia può aiutare a capire le origini di questa parola. In Sardegna Spìrito, Spíritu è un cognome. E come avviene per la generalità dei cognomi sardi, anche questo lemma è arcaico. Se è diventato cognome, vuol dire che all’inizio fu principalmente un nome muliebre sardiano, il quale a sua volta sottendeva una pratica rituale nota e apprezzata. In tal caso ebbe la base nell’akk. supû, suppû ‘preghiera, supplica’ + irītu ‘consiglio, guida, direzione’: supp-irītu, col significato di ‘Guida nella preghiera’ (da elevare agli déi). A quanto pare, anticamente le preghiere nel Tempio erano dirette da un sacerdote o una sacerdotessa, i quali, si sa, erano gli intermediari tra il popolo e la divinità. Fu da questa contingenza materiale che “prese corpo” la parola spirito.
PORCEDDU. Su questo cognome occorre fare chiarezza. Va additata la posizione dei troppi linguisti che lo congelano, senza ulteriore indagine, come diminutivo del cgn Porcu. Per capirne meglio la problematica, si legga al cgn Porcu, essendo esso il prototipo dal quale siamo partiti. Infatti l’etimologia di Porcu, e del sost. porcu, ha la base nel sum. bur ‘distribuire, spargere (il fertilizzante)’ + ku ‘aratro’, col significato di ‘aratro fertilizzante’, riferito all’indole del suino di “arare” furiosamente la terra non appena è piovuto.
Quanto a Porceddu (Porcéḍḍu), la prima osservazione è che ha numerose varianti, quale Porcedda, Porcella, Porcellu, Porcelli, Porchedda, Porcheddu, Porqueddu. Di tali cognomi è ricoperta la Sardegna, talchè si può dire che questo genere di cognomi è il più espanso nell’isola. Si badi che l’espansione non è stata generata da un solo ceppo familiare. C’è da chiedersi perché questo genere di cognomi sia nato da tanti fuochi indipendenti. Evidentemente, per la sua importanza religiosa. Leggendo al lemma Porcu e specialmente al lemma Zedda, si apprende che il porco nell’alta antichità fu l’effige terrena del Dio della Natura.
Onde si può evincere che il cgn Porceddu, Porcella e varianti non fu altro, ai primordi, che l’epiteto sacro del Dio della Natura Adone, avente a base il sum. bur ‘distribuire, spargere (il fertilizzante)’ + ku ‘aratro’ + akk. ellu ‘puro, santo, sacro’, col significato finale di ‘Sacro aratro fertilizzante’.
VIRGŌ. Allora sarebbe il momento di rimettere nei binari giusti la stantia storiella della vergine (Maria). Certamente il lat. uirgō, uirginis indirizza in tal senso. Il tutto si collega al lat. uirga ‘verga, rampollo’ che ha prodotto persino l’attuale Virga, cognome panmediterraneo il quale ha le basi etimologiche nel sum. u ‘dono’ + ir ‘albero’ + gu ‘mangiare’: u-ir-gu, col significato di ‘dono dell’albero da mangiare’: poetica espressione che indicò in origine i nuovi germogli delle piante, quelli che vengono brucati dalle capre e dagli altri ungulati. Da qui il lat. uirgō, uirginis ‘fanciulla, donna non ancora amata dall’uomo’, di cui i latinisti non hanno scoperto l’origine perché detestano immischiarsi con la lingua sumerica. Non dimentichiamo che l’evangelico uirgō, uirginis è una scelta di san Girolamo, il quale lo tradusse dal gr. párthenos ‘vergine’ (‘donna non conosciuta da uomo’). A sua volta quel lemma greco è dal sum. par ‘canale, condotto’ + te ‘membrana, imene’, te ‘perforare’ + nu ‘no, non, senza’: par-te-nu, col significato di ‘(donna) senza il condotto dell’imene perforato’.
Allora, tutto a posto? Non direi. Infatti la Bibbia dei Settanta era stata tradotta a sua volta dall’aramaico al greco con delle “visioni” che nulla avevano da spartire con le fissazioni sessuofobiche della futura religione neotestamentaria. Come sempre accade a questo mondo, le traduzioni da lingua a lingua vengono fatte con rigore, ma entro certi limiti, i quali affiorano al momento in cui manca l’esatto equivalente nella lingua recettrice. Nel greco dei Settanta, si dava il caso che davanti a due vocaboli semitici alquanto differenti (almah e betulah) la lingua greca aveva un solo corrispondente, párthenos ‘vergine’. E qui torniamo alla fonte, che è il profeta Isaia 9,5 più su citato. I versetti d’Isaia evocati da Matteo 7,14 dicono infatti: «Ecco, la ragazza (almah) concepirà e partorirà un figlio, che sarà chiamato Emanuele». I Settanta traducono párthenos ‘vergine’ mentre in ebraico per ‘vergine’ si dice betulah. La controprova sta nel Cantico dei Cantici, dove il plurale di almah, alamot compare assieme a “regine e concubine”, che vergini non erano. (…)
NORA, Nῶρα in greco, Nōra in latino. Esistette pure un castello della Cappadocia, chiamato Nῶρα da Plutarco, Strabone, Diodoro. Vedi anche i toponimi sardi Nurae, Nurri, ed il coronimo Nurra. Sono numerosi i toponimi sardi con questa forma, ed altrettanto numerose le volte che essa entra in composizione (Narbolìa, Norbello, Noragugúme, Nuráminis, Nuralláo, ecc.).
Ma occorre procedere con ordine. Se Nurae, Nurra, Nur-ake hanno la stessa base, qual è l’origo prima? Attiene al termine accadico nūru(m) ‘luce (del sole)’, numru ‘bagliore, splendore (del sole, di dio)’ riferito al più alto concetto del sacro, alla ‘luce’, quindi al fuoco perenne che risplendeva nelle notti sullo spalto terminale di tutti gli ziqqurat, sullo ziqqurath di Monte d’Accoddi, sui nuraghes. In aramaico e ugaritico Nur è la ‘dea della Luce’, ‘quella che illumina’. In fenicio manca il termine (il suo Vocabolario superstite è troppo striminzito) ma la Fuentes-Estanol crede che la città sarda chiamata Nora sia espressa in fenicio nel toponimo Ngr. Forse è più facile rintracciarla nella forma fenicia Nr, che indica l’atto di offerta al Dio. Ma pure la forma Ngr, scritta nella stele di Nora per denominare appunto Nora, e ancora pronunciata Ngr (leggi Nùguru) a indicare la città di Nùoro, è un indizio forte, che lascia intuire delle basi fono-semantiche ancora più antiche, basate sul composto sumerico che denominò pure il nuraghe. Allora conveniamo sul fatto che anche l’accadico nūru è già ai suoi tempi (3-4000 ani fa) un lemma cristallizzato, le cui basi più arcaiche si trovano nel sumerico nu ‘creatore’, ‘sperma (divino)’ + ra ‘puro’, ‘splendente’ (vedi egizio Ra ‘Sole che splende’), col significato originario di ‘Bagliore di Dio Creatore’. A questo termine, già in sumerico, si agglutinò anche un terzo lemma, gu, e il composto nu-ra-gu (‘nuraghe’) significò ‘complesso edilizio di Dio Fulgido Creatore’, ‘Chiesa del Fulgido Creatore’. Il nuraghe era, insomma, l’edificio sacro eretto a magnificare il Sommo Dio Creatore dell’Universo.
Ma che c’entra questo discorso con la nurra intesa come ‘voragine, spaccatura profonda, cavità tenebrosa’? Altro che se c’entra! Il concetto deriva sicuramente dal tabernacolo del Nurake, cioè la tholos, la camera sacerdotale, il sancta sanctorum impenetrabile e buio, la parte vuota del nuraghe. Traslare il concetto del vuoto vaginale della tholos (fuso carnalmente con la soda virga del nurake, vuoto-per-pieno, entrambi simbolo dell’unità col Dio della Luce) fu compito dei preti cristiani dell’alto medioevo, che demonizzarono tutto quanto atteneva agli aspetti pagani della santità. E così alle voragini terribili ed imperscrutabili del Supramonte e delle montagne carsiche, simbolo dell’ingresso all’Inferno, fu concettualmente paragonato, traslato ed indirizzato il nome delle thòloi (delle nurre) che divennero i contenitori delle tenebre sataniche ed esecrande dove il Diavolo celebrava i propri riti per propiziarsi il furto delle anime. Va da sé che il seriore concetto di nurra in quanto ‘mucchio di sassi’, non fu altro che una conseguenza del nuovo modo che il clero bizantino impose nel considerare il nuraghe.
NÙORO. Attestato dal 1341 come de Nuor othonensis diocesis (era un vicus dipendente dalla cittadina di Otthana), il toponimo lascia aperta inizialmente più d’una ipotesi. Pittau fa una proposta semplicistica e acritica nell’avvicinare (per assonanza) il toponimo ad altri simili della penisola italiana evocanti la noce, come Nogara, Nogaredo, Nogarole, dal lat. *nucaria ‘(il) noce’ (da nux ‘noce’). Cfr. il veneto nogàra, noghèra ‘noce (albero)’. E nel proporre ciò, da buon nuorese non dimentica l’accento alquanto ondivago di Nùoro, dagli indigeni chiamata talora Nùgoro ed altra Nugòro. Se la radice provenisse dal lat. nux, ci renderemmo pure conto della pronuncia non più piana ma sdrucciola dei nuoresi, essendo tipico degli indigeni del Nuorese e della Barbagia di Ollollái pronunciare molti nomi sul tipo càmpana anzichè campàna, etc.
Ma per non titubare e indugiare più del dovuto su nux, alternativamente ricordo che i nomi locali sardi in -or, -ir richiamano l’accadico ūru ‘città’, ugaritico ‘r, ebr. ‘ir. Ciò posto, il Semerano vede in Nùoro una commistione (o confusione) tra la base Nu- di nu-rake + l’akk. uru, come dire ‘la città dei nuraghi’. Banale.
Senza andare per funambolismi, noto che la radice Ngr è già presente nella lingua fenicia (c’è persino nella Stele di Nora!), ed essa può essere vocalizzata benissimo come Nùgoro o Nugòro. Per quanto poi da qui nasca un problema, visto che la Fuentes Estanol, autrice del Vocabolario Fenicio, dà a Ngr nientemeno che il significato di Nora (subordinatamente di ‘carpentiere’). Accettando la sua tesi, e considerando che carpentiere (o falegname) non è un predicato territoriale degno di figurare come toponimo, avremmo a che fare con Ngr che dà Nora e pure Nùgoro/Nugòro.
Accetto questa ambivalenza, ma ora la questione si complica, poichè a questo punto occorre evidenziare che in Logudòro Nùoro (Nùgoro) è chiamata Nùaru, lemma con base nell’ant.akk. nawāru(m) ‘essere brillante, splendere’ > agg. nawru(m), nauru(m) ‘brillante, scintillante’ (di corpi celesti, come epiteto divino), incrociato con nuwwurum ‘intensità (di luce)’. Nùgoro invece ha la base diretta da nuwwurum, con successiva consonantizzazione delle due velari -ww- > -g-. Va precisato, a scanso d’equivoci, che nuwwurum è un epiteto riferito direttamente al nuraghe quale sede luminosa del Dio del fuoco, e che dunque i toponimi Nùgoro e Nùaru sorti in virtù di tale epiteto sono sempre riferiti in prima persona al nuraghe, che era il tempio del Sole.
Nella persistenza millenaria delle due pronunce Nùgoro e Nùaru rientra a pieno titolo anche la parentela semantica esistente tra ‘intensità di luce’ (nuwwurum riferito alla sacralità del nuraghe quale altare del fuoco)’ e ‘nuraghe’ (nuḫar, sum. nuragu), che portò all’immedesimazione della “torre” col suo epiteto e persino alla fusione dei due termini. Nel Nuorese prevalse la lettura toponomastica riferita alla brillantezza del nuraghe quale altare del fuoco, che è nuwwurum.
Quanto a Nora, nella pronuncia dei Fenici prevalse il rafforzamento o consonantizzazione dell’accadico -ww- di nuwwurum, ed ancora in epoca storica essi chiamarono Ngr la città, giusta l’intuizione della Fuentes Estanol; nella pronuncia sarda invece prevalse l’affievolimento e la successiva caduta di -ww-, onde nuwwurum >Nu(ww)ra > Nora.
Per tornare a Nùoro e capire il processo fonetico che portò a Nùgoro, possiamo partire, alternativamente, anche dall’agg. nawru(m), nauru(m) ‘brillante, scintillante’ (di corpi celesti, come epiteto divino). A questo riguardo entra in gioco la legge della semplificazione del dittonghi protosemitici (riguardante l’antico accadico), che dalla base naurum produsse nū(w)rum; l’antica semiconsonante debole (w) fu assimilata poi alla /g/ che è la velare sonora più vicina alla /w/. Quest’ultima è sparita nel toponimo Nora [< Nū(w)rum], è rimasta nel toponimo Nùgoro [Nū(w)rum].
SATANA. In ebraico significa l’Avversario, idea di base enunciata nella Tanak (la Bibbia ebraica). Il termine sortisce in periodo postesilico cioè dopo il 538 a.e.v., e si trova soltanto in Gb 1-2, Zc 3:1-2, 1Cr 21,1. Nei primi due esempi Satana è dipinto come un membro della corte di Dio il cui compito fondamentale era quello di “accusare” gli esseri umani dinanzi a Dio. In 1Cr la sua figura è più problematica, ma non è ancora l’incarnazione del male. Notisi che il “serpente” di Gn 3 non è mai identificato come Satana. È dopo il 200 a.e.v., nella letteratura extracanonica (apocrifi e pseudoepigrafi), che si trova per la prima volta l’idea poi sviluppata dal Nuovo Testamento. Probabilmente sotto l’influenza dell’ideologia persiana si era sviluppata nel pensiero ebraico l’idea di un dualismo nel creato: il bene contro il male (Mazdeismo). Fatto sta che gli Ebrei non conoscevano alcun nome per designare chi stava a capo del Male: dicevano a volte Belial, Beliar, Mastema, Apollyon, Samaele, Asmodeo, Belzebù. Al tempo di Gesù comunque era già acquisito che Satana s’identificava col Serpente di Genesi 3, e le sue schiere rappresentavano i poteri del Male nell’universo.
In realtà questo nome ebraico ha radici egizie. Satan non è altro che Seth, il malvagio fratello, l’avversario di Osiride, dio del caos e della guerra nella mitologia egizia. In origine non fu altro che il Dio della Morte nella mitologia dell’Alto Egitto, e una volta unificato il reame fu facile creare il dualismo e contrapporlo a Osiride ch’era l’origine della vita (dio della natura) nel Basso Egitto.
BA῾AL-ZEBUL. Il Ba῾al-Zebul (‘Signore principe’, ‘Signore onorato’, ossia Dio Supremo) dei Fenici e dei Filistei, viene presto affiancato alle mosche, attingendo arbitrariamente dal zebūb di Is. 7:18 (‘mosche’), e introducendo con lieve mutazione fonetica un Ba῾al-Zebub ‘Signore delle mosche’. Ovviamente i Settanta s’attennero a tali zebūb-μυίαις ‘mosche’, e il gioco, sempre più spinto e ingannevole, si perfezionò presso i primi Cristiani, che fecero sortire un Belzebù, Signore dei Diavoli (demoniorum).
LAMPADAS. ‘giugno’ ha la base etimologica nel sum. lam ‘far crescere riccamente’ + pad ‘rompere, fare a pezzetti; sminuzzare’ (senso di ‘trebbiare’): significò ‘trebbiatura della ricca crescita’.
SARDI. Non possiamo dispensarci dal dire che la radice Sard- era nota ed usata, oltreché in Sardegna, in tutto il Vicino Oriente. L’ultimo nome noto è Sarduri II re di Urartu, capo di una coalizione di regni neo-ittiti che perse la guerra di fronte al re-usurpatore assiro Tiglat-phalasar (744-727). Anche gli Ebrei conoscevano tale radice: l’ebreo Sèred סֶרֶד (cfr. Gn 46,14 e altri passi biblici) fu uno dei tanti che si trasferirono da Israele in Egitto. Cito anche l’omerica Σάρδεις in Anatolia (Lidia), ma solo per indicarne la divergenza, constatato che il Semerano afferma il suo nome originario essere Sfard, persiano Saparda, ebraico Sephārad. Il radicale sard- è invece collegato al villaggio sardo detto Sàrdara.
Secondo Pausania, Sardos libico è l’eponimo dei Sardi di Sardegna. Pittau OPSE 235 propone il parallelo tra l’etnico antico Sardiános e l’etrusco-toscano Sartiano (= Sarteano) nonché Sartiana. Pittau su basi linguistiche fa intendere che una parte dei Sardiani, una volta trasferitisi in Etruria, lasciarono in qualche villaggio il proprio nome d’origine, così come fecero in Corsica col toponimo Sartène. Come si vede, il radicale ha un’espansione mediterranea (esclusa, ripeto, la lidia Sárdeis, così nota attraverso la grafia erodotea).
Sard-us affonda le radici molto più addietro, avendo basi sumero-semitiche. Che esso sia almeno da 5000 anni l’etnico dell’uomo sardo, è incontrovertibile. L’affermazione di Pausania che Sardus libico è l’eponimo dei Sardi, aiuta a mettere in relazione Sardus con i Sardi ma non stimola a cercare l’etimologia nel nome della città lidia Sárdeis, come invece vorrebbero parecchi studiosi. Sardus in realtà non è altro che l’etnico di Sardō, che già per i Greci (Erodoto 1, 170: Σαρδώ) fu l’antica isola di Sardegna.
Questo lemma pone una seria ipoteca sulla questione relativa al nome iniziale della “Sardegna”, che si credette derivato da Sardi città lidia, ma che invece preesistette come nome dell’isola mediterranea. Infatti Sardū in sumerico significa ‘tutta un giardino’ (con ovvio riferimento all’isola che stava al centro del Mediterraneo). Poiché i Sumeri esistettero ben prima del 3000 a.e.v., sembra ovvio pensare che certi termini esistettero fin dalla notte dei tempi, senza dover immaginare che il focus originario fosse la regione della Lidia, come invece s’insiste a dire. Che poi persino le principesse anatoliche assumessero certi nomi sumerici, è persino ovvio, vista la rinomanza della lingua sumerica in tutta l’antichità della Mezzaluna Fertile ed oltre. E non deve meravigliare che la moglie del lidio Tirreno si chiamasse Sardū ‘Tutta un giardino’.
Che poi il termine, considerata la grande rinomanza, sia stato usato per metonimia anche a indicare molti altri termini legati alla Sardegna, sembra più che ovvio. Ad esempio, in accadico abbiamo varie occorrenze. Prima: sardium in ant.assiro e ‘un canto di benedizione’, ed ha evidenti rapporti col sacro. Seconda: si è sempre parlato della sardìna come pesce relativo alla Sardinia ma nessuno ha mai messo in relazione quest’ittionimo con l’ant. ass. sardum ‘impacchettato, appesantito’, segno evidente che proprio quel pesce era soggetto già da allora alla conservazione sotto sale in ceste di asfodelo, e che dunque l’attuale sardìna trattiene il senso accadico di “impacchettamento”. In ogni modo va tenuto sempre presente che Sardus e Sardinia hanno basi linguistiche distinte: in questo caso Sardū significa sum. ‘Tutta un giardino’; Sardinia invece è da sum. šar ‘splendido’ o sar ‘giardino’ + akk. dannu ‘potente’: col primo significato abbiamo ‘(isola) splendida e potente’, col secondo abbiamo ‘giardino potente’.
Insomma, per quanto si voglia girare attorno ai lemmi antichi denominanti la Sardegna, di essi si evince esclusivamente la loro autoctonia, la loro autoreferenza, mai contaminata dal (corrotto) toponimo che in epoca storica denominava la città anatolica di Sardi.
SARDÀNA, SHARDÀNA, ŠARDÀNA. A questo etnico calza male l’etimo proposto dal Semerano, dall’akk. šarru ‘re, gran re’ + dannu ‘potente’ = ‘Signore potente’. È incontrovertibile che questo etnico sia stato, a dispetto degli increduli, uno dei più famosi dell’antichità preromana. Il suo primo membro (šar-) ha parecchi etimi cui attingere per una traduzione valida. Oltre a quello del Semerano, abbiamo šar = ‘3600’ (indicato come numero indefinito, idea d’immensità); sarru ‘falso, criminale; ribelle’; bab. ṣar in ṣar maḫaṣu ‘colpire brutalmente, duramente’; šarāru(m) ‘andare in testa (nelle battaglie); incoraggiare’.
Per tutto quanto sappiamo attraverso i testi ugaritici ed egizi, uno qualunque dei termini mesopotamici addotti calza bene alla fama che questo Popolo del Mare si è conquistata. Gli Shardana, come sappiamo, erano infatti, a un tempo, in numero ‘indefinito’ (vedi testi di Ugarit); erano ‘odiati’ dagli Ugaritici e dal Faraone; indubbiamente erano ‘ribelli’ e quindi ‘falsi’ o ‘criminali’ agli occhi del Faraone; il re di Ugarit ed il Faraone concordavano nell’affermare che ‘colpivano brutalmente’ lasciando dietro di loro solo terra bruciata; infine dal Faraone sappiamo che quei valorosi ‘andavano sempre in testa nelle battaglie’ in qualità di truppe scelte.
Il termine Šardana (ŠRDN), rinvenuto nella celebre stele di Nora (oltrechè nei testi egizi), nel mentre che è da tradurre come ‘Sardegna’, è pure omofono del suo etnico (Šardana = ‘abitante della Sardegna’). La Fuentes-Estanol, per la lingua fenicia, dà Šrdn per ‘Sardo’ e Šrdn’ come gentilizio ‘Sardo’ ma anche Šrdny (possibile pronuncia Šardany), Šrdnt ‘Sardo’ come nome proprio.
Nei testi egizi gli Shardana sono registrati come Šarṭana, Šarṭenu, Šarṭina (EHD 727b). Altre volte nei testi egizi sono indicati come Šarṭana n p iām ‘gli Shardana quelli del mare’1. Wallis Budge li considera provenienti dalla Sardegna. Lo stesso pensano gli archeologi ed i filologi egiziani, assieme alla maggioranza degli studiosi di scuola inglese e americana. Non pensano così, ahimè, gli studiosi delle università sarde, non per altro, ma per l’eccesso di modestia e servilismo in cui si crogiolano.
Dal sumerico ricaviamo šar ‘splendido’ + dan ‘puro, limpido’ (šardan), da tradurre come ‘Gli splendidi’, ‘I purissimi’, ‘Gli Immortali’ o simili. Peraltro tale etnico non poteva avere altra spiegazione, visto che gli stessi Sumeri chiamavano la Sardegna Sardō, da sar ‘giardino’ + dū ‘tutto quanto’, componibile in sar-dū ‘tutta un giardino’: come tale la Sardegna doveva essere vista dai popoli abituati alle grame fioriture dei deserti.
EDEN. La mia precedente interpretazione è nella stessa linea, mutatis mutandis, di tutto ciò che fa conoscere Massimo Baldacci.
«Nelle mitologie facenti parte del ciclo di Ba’lu, uno dei miti riguarda la costruzione del tempio-palazzo del dio e contiene un accenno mitologico di grande importanza per l’esatta comprensione del substrato culturale e mitologico – in questo caso ancora una volta cananeo – alla base della parola Eden – il “giardino di Dio” di Ez 28, 13 – e del concetto in essa insito. In uno dei brani in cui è descritta l’attività salvifica del dio Ba’lu, esplicata attraverso le piogge, la dea Atiratu dice:
Ed ora possa Ba’lu rendere lussureggiante con la sua pioggia,
fertilizzando possa fertilizzare con precipitazioni a scroscio.
E possa far uscire il suo tuono dalle nubi,
possa dardeggiare lampi sulla terra (CAT 1.4. V: 6-9)
«La parola ugaritica resa nella traduzione con “rendere lussureggiante, fertilizzare” è ‘dn, la stessa che in ebraico indica ‘Eden, il paradiso terrestre: sulla base del contesto di Ugarit, la sua etimologia non è più quindi da ricercare nella parola accadica edinu “steppa” – poco adatta anche semanticamente – ma nella radice cananea ‘dn, assumendo in tal modo il significato più rispondente di “fertilità, abbondanza”».
Baldacci ha perfettamente ragione. In Sardegna sopravvivono anche altri termini che ci riportano all’antica credenza del Paradiso Terrestre; di seguito riporto le loro etimologie.
PARADÍSO, gr. Παράδεισος. Con questo termine in realtà s’indicava il parco reale dei Persiani, così citato da Senofonte, detto in ant. pers. paridaida, avestico pairi-daēza ‘cinta circolare’, aram. pardēsā, ebr. pardēs ‘parco’ (Qohelet, e Nehemia, il quale fu a corte di Artaserse I). È proprio dall’ebraico pardēs che ebbe origine il sardo pardu, che significò ‘prato’ ma principalmente il ‘sito della pastura’, ossia il luogo dove il bestiame può pascolare e ingrassare; da cui it. prato.
Non solo in Mesopotamia ma per tutto il Mediterraneo si ebbe, almeno alle origini, una chiara nozione di che cosa fosse il mitico Paradiso Terrestre, anche se non dappertutto si riusciva a indicare il sito esatto dove si trovava. Il termine infatti aveva a che fare con le aspettative più grandi e ideali dell’umanità. Prendendo da Tommaso Moro, possiamo chiamare il Paradiso Terrestre in modo paradossale, ossia Utópia, il non-luogo. Infatti il Paradiso Terrestre era il sito meraviglioso dove cresce facilmente il nutrimento e dove non si soffrono le pene dell’esistenza. Gli Accadici avevano un termine che esprimeva magistralmente questa situazione: aburru ‘prato irriguo, luogo di pascoli perenni’ (riferito alla prosperità umana); aburriš significava ‘su prati verdi’, una vera utopia se li riferiamo alla deserta Mesopotamia. Sinora nessuno ha saputo che il termine accadico aburriš equivale al lemma sardo a frori, locuzione che oggi ereditiamo in uno stato lacero e… contuso.
LOSA è il nome di un nuraghe in territorio di Abbasanta, tra i più belli della Sardegna. È congruo vedere la base etimologica nel sum. lu ‘divampare’ + šu ‘totalità, mondo’, col significato di ‘totalità fiammeggiante’ (epiteto del Dio Sole, che vi era adorato con i fuochi sulla sommità). L’alternativa sarebbe la base akk. lû(m), lī’um, ‘bull’ + šû ‘a stone’. Losa significa quindi ‘il betilo del (dio) Toro’, con riferimento alla maestosa possanza della sua altissima torre.
Non sembra valida invece la parentela con sp. losa ‘lastra di pietra’, ‘pietra sepolcrale’, ‘lastra per uccidere uccelli o topi’, che il Corominas ritiene pre-romano, lusitano, la cui possibile origine resta però indimostrata. Si badi che nel territorio del nuraghe Losa non ci sono affatto delle rocce calcaree tali da fornire lastre piatte; c’è invece un’immensa marea di basalti dalle forme incoerenti, che è possibile soltanto scolpire, non spacchettare come invece è tipico, ad esempio, di moltissimi calcari pugliesi e di pochissimi calcari sardi (quelli della Bassa Marmilla). Quindi, pur permanendo lo stesso concetto basilare di pietra sia nell’etimo accadico sia in quello lusitano, sembra più accettabile l’accezione di pietra semplice (da lavorare poi a martellina) su quella di pietra spacchettata.
L’ipotesi fatta da Dolores Turchi che il nuraghe Losa conservi ancora il significato di tomba perchè vi si poneva la salma del re-eroe della tribù locale, è plausibile in considerazione delle funzioni o (multi-funzioni) di alcuni grandi nuraghi, utilizzati più come cattedrali o grandi altari che come regge, ma la teoria della Turchi non riceve soccorso da questo termine spagnolo, troppo moderno sia per i Sardi sia per un nuraghe millenario che doveva avere già il proprio nome al momento dell’invasione catalana e aragonese. Peraltro la Turchi dovrebbe spiegare come sarebbe potuto entrare nell’uso, tra i pastori che conservavano tenacemente la propria identità, un termine nuovo proveniente nientemeno che dalla lingua di conquistatori recenti, accaniti limitatori della sovranità pastorale sul territorio. Invece l’accezione del significato di ‘pietra-betilo’ o meglio ‘totalità divampante’ (legata al concetto di altare del Dio Sole), più su proposta, è perfettamente consona sia alla geografia-petrografia locale sia alla religione degli Shardana, sia alla loro millenaria autonomia, che rimase tale anche nel Medioevo, almeno durante i Giudicati.
ASTARTE. Ogni popolo della Mezzaluna Fertile diede il proprio nome a tale Santa Paredra. E così Astarte, gr. Αστάρτη, sem. ‘Aštart fu la dea venerata nell’area semitica nord-occidentale. Nella lingua ebraica biblica il nome è עשתרת (traslitterato Aštoreth), in ugaritico ‘ṯtrt (anche ‘Aṯtart o ‘Aṭṭart, traslitterato Atirat), e in accadico Aš-tar-tu < ant. sem. aštaru ‘dèa’ < astû ‘trono’, aštu ‘donna’ < sum. ašte ‘trono’ + ar ‘(inno di) preghiera’ + tu ‘incantesimo’: il composto ašt-ar-tu significò in sumerico ‘trono degli inni dell’incantesimo’. Un bellissimo epiteto per Colei che si levava ogni mattina dai lavacri dell’Oceano per trascinare la barca del Sole. Ancora oggi un rione di Nùoro porta il suo nome, dovuto alla fonte Istirìtta, un sito extra muros di prostituzione sacra, da akk. ištarītu ‘ierodùla, seguace della dèa Ištar’, da Ištartu ‘Dèa’, Ištaru ‘Dèa’ per antonomasia, ossia la Paredra del Dio Sommo.
NURAGHE. In accadico per nuraghe (metasi: nuḫar) s’intende un high temple, un tempio situato in luogo elevato, eretto direttamente sopra una terrazza basale. Tipico high temple è lo ziqqurat, tempio uranico, sopra il quale in origine veniva eretta una cappella che assomiglia in modo sorprendente ai nuraghes.
In Sardegna, come si nota, il lemma babilonese è pronunciato all’inverso: nuḫar > nuraḫ > nuragh-e, nurágu. Il termine babilonese, così come lo recepiamo nei dizionari, ai suoi tempi era già un lemma rigido, cristallizzato, dal quale occorre enucleare le basi compositive. Troviamo queste nella lingua sumerica (dalla quale in gran parte quella accadico-babilonese deriva). Esse hanno la seguente agglutinazione: nu ‘creatore’, ‘sperma (divino)’ + ra ‘puro’, ‘ fulgido’, ‘splendente’ (v. egizio Ra ‘Sole che splende’) + gu ‘forza’, ‘complesso’, ‘interezza (di edificio)’. Il composto nu-ra-gu significò quindi ‘complesso edilizio di Dio Fulgido Creatore’, ‘Chiesa del Fulgido Creatore’. Era, insomma, l’edificio sacro eretto a magnificare il Sommo Dio dell’Universo nella sua epifania solare.
ABBIR. Comincio con una variante del noto appellativo del Sardus Pater Babay (Addir). Questa divinità è adorata nel tempio punico di Antas (Fluminimaggiore) e da molti dotti il lemma viene considerato il Suo nome, ossia il nome del Dio nazionale dei Sardi precristiani. La base etimologica di Abbir è l’ebr. ’abbīr ‘il potente, strong’ ( אַבּׅיר ), da cui anche gr. ‛ύβρις ‘prepotenza, spirito oppressore, dissennatamente potente’, akk. ubāru ‘forza, violenza’. V. nome personale fenicio ’bbirbaʽal = ‘Forte è Baal’. Per Babay vedi oltre.
A sua volta Addir ha la base nel sum. addir ‘nolo, paga’, ma forse è meglio da ad-dirig (ad ‘zoppo’ + dirig ‘supremo, immensamente grande, eccellente’). A ben vedere, questo è un epiteto esaltativo del Dio della Natura (vedi la discussione appropriata su Adon).
ADDIR. Vai ad Abbir.
ADON è il dio siriaco della Natura, amato dalla dèa Ištar. Venerato anche dai Fenici come dio tutelare della vegetazione. Dall’Adone siriaco i Greci copiarono il loro bellissimo Adone. Abbiamo anche Adonéo, epiteto che Siri e Fenici davano al Dio Sole.
Ma chi è Adon, Adonai? Il termine è ebraico, semitico, e significa ‘Signore’. Anche l’appellativo di Gesù è identico: Signore. Un appellativo inossidabile, usato per tutti gli dèi del Mediterraneo e della Mezzaluna Fertile, che dura fin da epoca sumerica, quindi da oltre 5000 anni. Possiamo tradurlo anche come ‘leader, guida’, dal babilonese adû. Ma la più antica radice è il sum. ad ‘essere zoppo’ + un ‘cielo’: ad-un, col significato di ‘lo Zoppo del Cielo’, a indicare che Adone saliva ogni anno al Cielo, sempre segnato dalle stimmate dell’orribile zannata del cinghiale alla propria coscia, anzi al proprio inguine.
La tradizione della divinità zoppa, ferita tragicamente all’inguine e quindi resa impotente, interessò mezza Eurasia, e nel Medioevo cristiano fu strettamente legata alla leggenda del Sacro Graal (cui dedico un paragrafo ad hoc nel Capitolo 8 “Il Dio della Natura”).
Il nome Adon, o almeno il suo radicale, ricorre con forme simili in parecchie regioni mediterranee, akk. adû ‘leader’, sum. adda ‘padre’ e il citato adun ‘zoppo del Cielo’, eg. Aton ‘Dio Sole’, ‘Disco solare’ ipostasi del ‘Dio Unico’. La commistione col bab. Attana non è un semplice effetto di attrazione fonetica, poichè anche a Babilonia il nome del 7° mese (il nostro luglio) indicava, evidentemente, il momento in cui il Dio Unico (il Sole) scaldava maggiormente la terra.
Più che il greco Adōn, palese imitazione del nome e delle funzioni del Dio della Natura siro-fenicio, è importante presso i Greci la sopravvivenza del mito di Athena (ipostasi dell’autorità stessa della città di Athenai, e dunque chiamata con lo stesso nome). Il mito di Athena lascia intuire molto di ciò che i Greci non dissero mai. Costei era la dèa della saggezza, ma al contempo era protettrice dell’agricoltura, e per l’avanzamento delle sorti degli agricoltori piantò l’ulivo sull’Acropoli, divenendo di colpo protettrice di Atene e dell’Attica. Ma Athena era anche patrona di tutte le arti, per quanto il proprio ingegno divino fosse indirizzato specialmente ad ogni arte utile, compresa quella dei vasai. Fu anche la dèa della musica, e inventò il flauto e la tromba.
Ma Athena, dèa scaturita dalla testa di Zeus armata di tutto punto e urlante un grido bellicoso, era anche la dèa della guerra, e in tal guisa proteggeva il popolo, esercitando la sua funzione specialmente contro i nemici esterni. Non è un caso che intervenne energicamente a favore dei Greci nella guerra di Troia.
Con tutte queste prerogative, mai viste riunite in una sola dèa, Athena era considerata il primo essere divino dopo Zeus.
Tutto quanto precede non è un esercizio di erudizione ma serve a introdurre un discorso che accorcerò adeguatamente. I Greci erano un popolo maschilista. Tutte le storie su Zéus lasciano ampiamente capire che questo dio doveva governare ad ogni costo su tutto e su tutti. Athena fu tollerata perch’era la propria figlia prediletta. Questo è il mito tramandato.
In realtà le cose erano poste in modo assai diverso. Prima dell’invasione della Grecia, Athena era la padrona del campo, poiché in tutto il Mediterraneo si adorava esclusivamente, quale Essere Supremo, un’entità femminile, dalla quale l’Universo fu creato. Athena in tal guisa rappresenta la vera unica dèa venerata in Grecia prima del prevalere dei Dori.
Tutto ciò detto, è ora possibile accorciare notevolmente le distanze tra Athena proto-greca e Aten o Aton Dio del Sole presso gli Egizi, nonché Adon presso i Siro-Fenici.
Viene facile sostenere che i nomi degli déi durante la Grande Cenosi Linguistica Semitica non erano molti, ed erano fungibili tra di loro, con lievi differenze fonetiche tra i vari popoli, secondo la lingua che li adottava. Athena, in tal guisa, è un residuo della Maternità Universale, che poi fu spodestata da quei maschilisti che erano i popoli impropriamente chiamati indoeuropei.
In Sardegna è rimasto il cognome Attena, Dattena (d’Attena), Attene, Atene, Atzena, Azzena. Questo cognome dalle numerose varianti corrisponde anche al nome di un villaggio medievale Aczena, Assena nella diocesi di Usellus, presso Baressa, ora scomparso.1 Una variante esclusivamente fonica è il cgn Atzeni e Atzèi. In Sardegna, dedicato al Dio della Natura, è rimasto pure il nome di un villaggio, l’attuale Gadòni, chiamato dai residenti Adòni. Ai suoi confini territoriali esiste anche il nuraghe Adòni, eretto a quanto pare direttamente in onore del Dio della Natura, ipostasi del Dio Unico, ossia il Dio Sole.
BABÀY è termine che secondo Meloni SR sarebbe meglio scrivere Baby; è uno degli appellativi del Sardus Pater venerato nel tempio punico-romano di Antas. Gigi Sanna SG 446 lo dà come termine shardana ’b’ab-y. C’è del vero in quest’asserzione, anche se la sua ricostruzione (che tralascio) è lambiccata, mentre quella del Meloni non è dimostrata.
Babày è voce shardana ancora viva nel sardo attuale: babbu, babbáy ‘babbo, padre’, con tutte le conseguenze del caso < sum. babaya ‘old man’, akk. abu ‘padre’, cui si è aggiunta nel tempo la b- sumerica. Il termine si è fuso poi con bābu ‘piccolo ragazzo, bambino’ (cfr. ingl. baby) ed ha contributo ad espellere dalla parlata sarda l’omofono akk. bābu ‘porta (di casa, del tempio, della reggia, della città)’, arabo bab.
Va osservato che Babay o Baba (chiamata anche Nintu o Geštinanna, principalmente Ninkhursag) è una grande divinità femminile sumerica corrispondente alla Inanna di Uruk e di altri centri come Nippur. Era la Grande Dea Madre che presiedeva alla fecondità universale dell’umanità, delle greggi, dei campi, e nella cui personalità, particolarmente in alcune città importanti quale Uruk, sono presenti rilevanti aspetti astrali. Da questi ultimi dipendono le connessioni con Anu (dio del Cielo) e soprattutto l’identificazione con la stella del mattino e del tramonto. Baba era la dea principale anche a Lagash, altra città sumerica, dove all’inizio della primavera era onorata per diversi giorni. Nell’età neosumerica a Lagash essa si festeggiava anche all’inizio dell’autunno; per assicurare la fecondità universale c’erano le nozze sacre tra il grande dio della città e Baba in un’unione che effettivamente veniva consumata dal re con una sacerdotessa. Notisi la strabiliante trasformazione di questo appellativo, inizialmente femminile, che poi è arrivato a denotare una entità maschile, ivi compreso l’appellativo che ancora oggi in Sardegna si rivolge al genitore.
NANNA, NANNÁI, presso i Sumeri è il Dio-Luna (vedi l’Epopea di Gilgameš). Ed è pure il quinto nome del Dio Unico dei Sardiani. Questo Dio è noto agli Accadi come Sîn ma essi gli attribuiscono pure l’epiteto Nannaru come termine poetico, affettuoso, ipocoristico: quasi ‘nonno’, che è un ricordo del Nanna sumerico (adorato specialmente a Ur), con riferimento al Dio anzitutto ma poi anche a Ištar moglie di Sîn, la dea della Natura, dell’amore, della guerra. A Nanna, che percorreva la volta del cielo su un carro d’argento, occasionalmente si attribuiscono pure i fulmini e i tuoni.
Tale nome sacro viene qui riportato per la perfetta corrispondenza con nomi e toponimi sardi tipo Nanna, Nannái, Bon-nánnaro, ecc. Ma principalmente c’è una corrispondenza molto viva nell’uso idiomatico della città di Cagliari e di tutto il Campidano: Su carru ‘e Nannái, che nella mitologia sarda è il ‘tuono’. Si dice ancora ai fanciulli birichini, per indurgli panico e farli calmare: Là, là, d’intèndisi su Carru e Nannai? Chi non istas a bonu bènniri e tindi pinnigai! ‘Ascolta, lo senti il Carro di Nanna? Se non stai quieto viene a prenderti’.
Nanna nel dialetto sassarese è ‘il dormire’ del linguaggio infantile; ti porto a nanna ‘ti porto a letto, a dormire’. Il dialetto sassarese, sempre pronto ad accattare o conservare lemmi italiani antichi e moderni, conserva anche questo, usato sia nel parlare italiano sia nel dialetto: ajò a nanna ‘orsù, ti porto a dormire’. Il termine è registrato già prima di Dante.
Quanto all’etimologia, non accetto la sbrigativa presentazione del DELI, che relega il lemma nel linguaggio infantile, lasciandolo senza etimo. In realtà l’etimo esiste, occorre riferirlo al sum. Nanna, Nannai, il Dio della Luna, che era il dio più importante dei Sumeri, la cui origine è rintracciabile ad Ur. Si deve supporre che già in età arcaica nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente si usasse il termine in relazione al dormire, considerato che la Luna appare dopo il tramonto, all’ora nella quale gli antichi andavano normalmente a letto.
Questo termine appare un po’ in tutto il Mediterrano, e non solo. Abbiamo il sancrito naná e il gr. νέννος, νάννα, νίννα ‘zio materno o anche paterno’, inglese nanny ‘a woman who is paid by parents to look after their children’, nanny goat ‘capra femmina’.
L’it. (e sardo) ninna-nanna!, tipica cantilena della madre che addormenta il bimbo, ripete il termine sumerico, filtrato però attraverso il gr.-biz. νίννα-νάννα. Nannái in camp. indica pure la ‘moneta, denaro, soldi’; log. nennè. Questo termine è considerato dai linguisti ipocoristico, bamboleggiante, mentre è la forma sarda più antica per indicare la moneta. É indicativo che i Romani per indicare i ‘denari’ usassero l’antonomastico monéta, da Junō Monéta ‘Giunone ammonitrice’, nel cui tempio c’era originariamente la zecca. Altrettanto indicativo è il termine sardo nannái, nennè, che hanno la base etimologica in Nanna, Nannar, Nannai, il dio sumerico della Luna (chiamato anche Sîn, ma ad Ur chiamato specificamente Nanna). C’è da immaginare che i Sumeri di Ur conservassero il tesoro pubblico della città-stato proprio nel tempio principale, quello appunto di Nanna.
Ricordo che Sargon il Grande, nel tentativo di dominare le città sumeriche da lui assoggettate, nominò addirittura sua figlia Enkheduanna sacerdotessa della divinità cittadina di Ur. Per il periodo di Isin-Larsa si hanno documenti significativi sul commercio marittimo di Ur con Dilmun. Ur, città meridionale collegata al Golfo Persico, sembra particolarmente impegnata nel commercio marittimo, che è organizzato dal grande santuario cittadino, il tempio di Nanna (e della sua paredra Ningal). Il tempio affida ai mercanti un certo quantitativo di tessuti con l’incarico di riportare a Ur lingotti di rame (i quali dovevano avere un peso certo, come gli ox-hide sardo-cipri, e dunque valere come moneta). I mercanti, al loro ritorno da Dilmun, versano una decima di mercanzie preziose (rame, pietre dure, corallo, avorio) alla paredra Ningal. Ed è così che il grande tempio diviene rapidamente l’unica vera banca della città-stato. Ecco quindi i raccordi storici di questo lemma sardo riferito alla ‘moneta’.
ANI. Andando in ordine alfabetico, osservo che nel Campidano (ad es. a Quartu) è così chiamato san Giovanni (santu Ani). La persona chiamata Giovanni viene invece detta Giuánni. La differenza non può essere spiegata con ragioni di eufonia, di contrazione all’incontro di due parole, di sandhi. Il parlante crede inconsciamente che santu Ani sia l’effetto di un troncamento eufonico da scrivere esattamente sant’Uáni, ma non è così. Ammesso che lo fosse, sarebbe da spiegare perché *Uáni appaia soltanto collegato a santu, mentre non appare nella normale catena parlata, e nemmeno negli appellativi del tipo tzíu Giuánni ‘zio Giovanni’.
In realtà, santu Ani è un relitto nominale riferito al dio sumero An (il Dio sommo del Cielo, espresso quasi sempre dal dio Sole, con base etimologica nel sum. an ‘luce, splendore’), poi divenuto Anu presso i Semiti. Fu impegno dei preti bizantini “aggiustare” foneticamente il fenomeno, trasformando il dio Anu in san Giovanni, il quale non a caso viene celebrato il 24 giugno, al massimo dello splendore dell’astro. Si badi che gli Egizi per An, Ani indicavano il Dio-Luna. Anu peraltro sopravvive in Sardegna proprio in questa forma, e appartiene a un cognome che i Bizantini non ebbero il potere di far sparire dalla storia linguistica.
IÁCCU. Terzo nome del Dio sardiano, senz’altro il più intrigante, è Iáccu, anch’esso panmediterraneo. Íaccos, Ἴακχος è pure il nome solenne di Bacco (Diónisos) nei Misteri Eleusini. Ricordo il grido rituale in onore del Dio: Iacco! Nei Misteri Íaccos era considerato figlio di Zeus e di Demetra ovvero sposo di Demetra, e veniva distinto dal Dioniso tebano, figlio di Zeus e Sémele. In alcune tradizioni Iaccos è considerato figlio di Bacco, ma in altre i due personaggi sono identici. Nel mondo latino talvolta era identificato con Libero.
Circa l’etimo di Iáccu, Íaccos, Ἴακχος, possiamo inferire che la sua base etimologica è ebraica, non per altro, ma solo perché gli Ebrei lo considerano il vero nome (quello segreto) del proprio Dio. Il sardo Iáccu, gr. Íaccos, è lo stesso tetragramma ebraico YHWH, il nome di Dio Onnipotente, da pronunciare così com’è scritto, ossia Yaḥuh. In Sardegna questo nome sacro è ripetuto numerose volte, nei nomi personali, nei cognomi, e anche in parecchi toponimi.
Tale nome sacro appare nella Bibbia 5410 volte a cominciare da Gn 2, 4. Secondo i vari rabbini che hanno pubblicato la Bibbia ebraica (ivi compreso, per l’Italia, Rav Dario Disegni), la vocalizzazione e la pronuncia di YHWH, יהוה, non sono note «perché per antichissima tradizione esso non viene mai pronunciato ma sostituito da Adonai, ‘il Signore’». A partire dal XVIII secolo nella Bibbia sono presenti tradizioni compositive differenti che si distinguono per l’utilizzo dei diversi appellativi divini. Ad esempio, nel libro della Gènesi è presente una versione della creazione che utilizza il nome Elohim; nel testo masoretico il tetragramma appare come Adonai. Nel testo greco dei Settanta è scritto Kýrios, aggettivale significante ‘che ha potere, forza, autorità’, tradotto normalmente come ‘Signore’ ma che è meglio tradurre come ‘Potente’. Si badi bene che nei più antichi frammenti greci della Bibbia (I-II secolo a.e.v.) al posto dell’aggettivale citato c’è soltanto il tetragramma ebraico. Invece in altre bibbie greche (come quella dell’Aquila) il tetragramma è scritto in lettere greche. Evidentemente essa è, dopo tali frammenti, tra le più antiche bibbie greche tramandate.
I Testimoni di Géova finora sono stati gli unici a parlare con una certa libertà di questo lemma, e ripetono le ovvie considerazioni di alcuni liberi ricercatori anglosassoni (George Howard, Paul Kahle, Sidney Jellicoa), secondo cui nei frammenti più antichi il nome divino è scritto in aramaico, o in lettere paleoebraiche, poi è traslitterato in lettere greche, infine in tutte le restanti bibbie greche il tetragramma è tradotto con Kýrios (κύριος): quest’ultimo lemma denuncia una ovvia innovazione cristiana.
L’interpretazione etimologica del tetragramma (interpretazione ebraica, s’intende) si basa su Esodo 3, 13-14-15, allorchè Dio manda Mosè dal Faraone a chiedere ed ottenere l’uscita dall’Egitto. «Allora Mosè disse al Signore: “Ecco quando io mi presenterò ai figli di Israele, e annunzierò loro: Il Signore dei padri vostri mi manda a voi, se essi mi chiederanno qual è il nome di Lui che cosa dovrò rispondere?”. E il Signore rispose: “Io sono quello che sono” e aggiunse: “Io sono, mi manda a voi”. Inoltre così disse il Signore a Mosè: “Annunzia ai figli d’Israele che è il Signore dei vostri padri, Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe che m’invia a voi. Questo è il mio nome in perpetuo, questo è il mio modo di designarmi attraverso le generazioni”».
Secondo Rav Dario Disegni, «le espressioni di questo verso [14] e del seguente sono oscure forse volutamente. Ne sono state tentate varie spiegazioni, fra le quali è difficile scegliere. In queste parole è, a quanto pare, da vedersi un’allusione al nome divino, che noi non pronunziamo, scritto con le lettere J. H. V. H. che contengono la radice del verbo che significa ‘essere’. L’espressione può significare: l’eternità, l’immutabilità di Dio. Il fatto che Egli è l’Essere, Esistente per se stesso, può voler dire: “Poco importa il mio nome, quello che importa è che Io sono”. Altra spiegazione: L’Essere di cui l’esistenza ha la sua causa in Se Stesso, e non mutua la Sua origine da alcun altro essere».
Henri Serouya (La Cabala 97) scrive che «il pensiero ebraico, portando più avanti la sua forza di astrazione, libera il segno dalla cosa significata, la parola o il nome dall’oggetto denominato; poi accorda al nome, alla parola e persino alla lettera o al numero un valore in sé, in quanto principio essenziale. Così un significato si applica a ogni nome proprio di Dio, usato dalla Scrittura: Elohim è ora Yahvé, ora Shaddai. Il nome di quattro lettere, o Yahvé, sembra avere avuto, dall’epoca talmudica, una parte capitale nel misticismo teorico e soprattutto nel misticismo pratico. Il Talmud (Yoma, IIa) dice che un tempo si sapeva pronunciare questo nome e che allora era permesso al saggio di insegnarlo ai suoi figli e ai suoi discepoli scelti, una volta alla settimana. Questo tetragramma, detto anche “nome distintamente pronunciato” (Mishnah Yoma, VI, pag. 2) e “nome unico, proprio” (Sanh., 56a; Shebuoth, 36a) poteva essere pronunciato solo nel Santuario, dai sacerdoti che recitavano la benedizione sacerdotale (Mishnah Sotà, VII, pag. 6) e dal Gran Sacerdote il giorno del digiuno (Mishnah Yoma, loc. cit.). Secondo un testo di Maimonide “dopo la morte di Simeon il Giusto, i sacerdoti, suoi fratelli, cessarono di benedire con il tetragramma ma benedissero con il nome di dodici lettere”. Questo nome divino, come distaccato da se stesso, tende a costituire un essere in sé. “Prima della creazione del mondo”, dichiara il Talmud, “non vi era che Lui e il suo nome”.
È lampante che l’interpretazione degli Ebrei è una non-interpretazione. Essi, per timore e rispetto alla santità dell’Essere, rinunciano a scandagliare scientificamente il problema dell’etimologia, anzi si rifugiano negli assurdi meandri della cabalistica, e dobbiamo dire che la loro autorevole inazione (o distrazione) ha indotto qualunque altro ricercatore, che fosse laico o ebraico o cristiano o marxista, a non immischiarsi nella questione, anzi a rimuoverla.
Se dovessi tentare personalmente una interpretazione etimologica, penso che, con quelle premesse, non riuscirei ad andare lontano. Tenuto conto che gli Ebrei hanno origine sumerica e constatato che la lingua sumerica è la più antica del mondo (tra quelle scritte), mi è forza basarmi sul termine sumerico ia ‘oh’ (una esclamazione, una esortazione), ma dopo questa esclamazione non ho nient’altro da esaminare. Però soccorre meglio l’accadico i ‘let’s, come on, suvvia’ (esortazione simile a quella sumerica), alla quale affianco aḫu che significa ‘fraternizzare’ ma principalmente ‘forza’: in composto abbiamo i-aḫu, y-aḫw, col significato di ‘Oh Forza’, ‘Oh Potenza’ (esclamativo, esortativo). Il termine accadico aḫu significante ‘forza, potenza’ giustificherebbe anche la traduzione fatta dai Settanta mediante Kýrios ‘Potente’. Questo esortazione-epiteto è, se vogliamo, un fatto normale, diciamo pure banale, anche perché da sempre, e fino ai nostri giorni, ci si è rivolti a Dio esclusivamente mediante l’esortazione (leggi ad es. le varie parti della Santa Messa cristiana).
Il fatto che Dio abbia ordinato a Mosè di chiamarlo mediante una esortazione riferita alla Sua potenza infinita, non deve meravigliare, poiché nella Bibbia (e anche nei Vangeli) Dio non ha mai cercato le astrusità e i sotterfugi, tantomeno le simbologie: anzi ha sempre voluto un rapporto chiaro e diretto con l’Uomo. Sono stati gli Ebrei ad avere forzato nella direzione di un distacco totale tra l’Essere divino e la Parola. E questa tradizione giudaico-cristiana è, purtroppo, ancora oggi, inossidabile.
Questa vicenda del vero nome personale di Dio, il quale a tutt’oggi permane non-riferibile, anzi addirittura ignoto (perché ignoto è sempre stato, non dimentichiamolo!), è tuttavia mal posta. Tutti i ricercatori brancolano nella cecità totale (una cecità reale, obiettiva, ma ad un tempo esilarante), e si rammaricano di non poter andare più a fondo in questa ricerca. Esilarante e assurda. Non hanno tenuto conto del fatto che Dio, alla precisa domanda di Mosè, non poteva rispondere altrimenti di come ha risposto, dicendo in sintesi che Lui NON AVEVA NOME e che poteva essere invocato soltanto come ‘il Potente’. È esilarante vedere i nostri ricercatori basiti! Eppure basta poco a capire che DIO NON PUO AVERE UN NOME! E perché mai dovrebbe averlo? Egli è Dio, è YHWH, nient’altro! A questo punto, dichiaro chiusa ogni discussione: il volerla tenere aperta è segno di dabbenaggine e di scarsissimo rispetto per la Maestà di Nostro Signore Onnipotente.
E, a dirla tutta, qua non è in gioco soltanto la dabbenaggine e lo scarso rispetto dei ricercatori. Ci aggiungerei, a loro disdoro, anche una dose d’ignoranza. Dobbiamo ammettere che abbiamo spesso proiettato gli studi biblici su uno schermo metastorico, anche perché ne siamo stati forzati dall’esegesi rabbinica, mentre al contrario ogni passo della Bibbia necessita di essere rigorosamente contestualizzato in una precisa fase della storia. Per quanto riguarda le vicende di Mosè e dell’Esodo, non possiamo capirle se non inquadrandole nella temperie culturale dei tempi in cui gli Ebrei vivevano in Egitto. E allora va chiarito che presso gli Egizi il nome personale era sottoposto a un rigorosissimo tabù, non poteva essere mai pronunciato.
L’uomo ha sempre parlato poco, e nel passato – fino a secoli recenti – la parola pronunciata era considerata sacra. Ogni parola pesava come un sasso. Ogni parola un impegno. La parola fu sempre sacra. Nessuno poteva pronunciarla invano, nessuno poteva tradirla. L’origine sacrale del linguaggio impedì per millenni di operare una netta distinzione tra le parole e le cose. L’uomo di Sumer, di Babilonia, del Nilo, della Sardegna precristiana, per quanto acculturato, non si liberò mai dal pensare concreto. Le prime idee astratte furono prerogativa degli antichi Greci, ed il loro apparire, checché se ne pensi, non fu meno rivoluzionario dell’invenzione della ruota.
Possiamo affermare che la storia fu sempre fatta, almeno fino alla Nuova Era, dall’Homo concretus, il quale ha sempre pensato che tra il nome personale e la persona fisica esistesse un legame sostanziale e vincolante, sul quale si poteva agire magicamente. In Egitto si ricordava il mito di Iside, la quale divenne la Dea Madre dell’Universo soltanto dopo aver conosciuto, mediante le sue arti magiche, il vero nome di Ra (del Sole), spodestandolo. L’uomo vide nel proprio nome una parte vitale di sé, e di conseguenza se ne prese cura, ad evitare che gli togliessero la vita. Questo legame vitale fu sentito un po’ da tutti i popoli. Fino ai tempi di Frazer (100 anni fa) tutti questi popoli tennero accuratamente nascosto ogni nome personale.
Presso gli antichi Egizi ogni persona aveva «due nomi, il nome vero e il nome buono o il nome grande e quello piccolo; e mentre il nome buono, o piccolo, era di pubblico dominio, quello vero, o grande, sembra fosse tenuto accuratamente nascosto» (Frazer). Infatti per gli Egizi «il nome era una seconda creazione dell’individuo, innanzitutto al momento della nascita, quando dalla madre viene imposto al neonato un appellativo che ne esprime sia la natura, sia il destino che ella gli augura, ma anche gli si rinnova il destino ogni volta che viene pronunciato. Questa fede nella virtù creatrice del Verbo determina tutto il comportamento degli Egiziani rispetto alla morte: infatti, nominare una persona o una cosa equivale a farla esistere al di là della scomparsa fisica, e quindi diventa necessario moltiplicare i segni di riconoscimento. È questo il motivo per cui la cappella funeraria, e in generale il luogo ove si praticava il culto del defunto, racchiudono una somma di indicazioni la più precisa possibile, in modo che il ka possa godere senza problemi di quanto gli è dovuto» (Grimal, SAE 139).
Questa temperie culturale degli Egizi aveva contagiato gli Ebrei; quindi appare assurda la pretesa di Mosè di conoscere il vero nome di Dio. Salvo il fatto che, come ho già detto, Dio non ha nome, non può averlo. E perché mai dovrebbe averlo? A cosa Gli servirebbe? L’uomo, senza accorgersene, continua a trattare Dio come una persona o come una cosa, dimenticando che Dio non è uomo, né cosa, e non può essere nemmeno puro pensiero, come invece ci si ostina a blaterare nella incommensurabile insufficienza del nostro linguaggio. Egli È. Nient’altro. Qualunque altra asserzione è una bestemmia.
Quindi all’uomo basta e avanza l’opportunità d’invocare Dio come YHWH o (che è lo stesso) come Kýrios, il ‘Potente’. Se poi gli Ebrei sono talmente imbalsamati dalla paura di chiamare direttamente Dio, qualcuno dovrebbe aiutarli a capire che gli epiteti da loro inventati per by-passare il tabù hanno esattamente la stessa semantica della parola tabuizzata, sono infatti la tautologia di YHWH.
Il fatto che i Sardi non abbiano mai patito il tabù degli Ebrei, la dice lunga sul fatto che il nome universale di YHWH dai Sardi è stato trattato con maggiore libertà, visto che in Sardegna quel nome sacro esiste un po’ dovunque. Certo, non esiste al modo come vorremmo, anche perché in Sardegna manca la tradizione scritta d’epoca precristiana (salva qualche frase fenicia). E tocca a noi oggi “sgusciare” e “raddrizzare” filologicamente certi nomi, certi epiteti, certi toponimi, allo scopo di capire la situazione di quei tempi e allo stesso tempo capire gli artifici che i preti bizantini inventarono, nella foga di ottundere e sopprimere ogni forma di dottrina che i Sardi avevano sulla religione dei padri.
Per ricuperare la storia antica della Sardegna, basta partire dal fatto che i preti bizantini fecero tabula rasa della pregressa religione, ma lo fecero con delle costanti che, una volta svelate, appalesano nitidamente le modalità con cui procedevano nel soffocare le parole-emblemi-simboli della religiosità del popolo. Il loro procedere era talmente capzioso che nessuno mai intuì l’inganno. Si trattava, per lo più, di approfittare del fatto che essi parlavano greco ed avevano quindi una lingua assai diversa da quella del popolo sardo, che parlava ancora lo “zoccolo duro” semitico. La differenza di toni, di accenti, di fonetiche, talora di concettualizzazioni da parte di quei preti che si sforzavano comunque di parlare sardo, suscitava nel popolo un irrefrenabile moto di simpatia e di disponibilità al dialogo. Quindi il popolo analfabeta accettava facilmente le “dotte” prediche con le quali i preti spiegavano che YHWH (letto i-aḫu) era lo stesso San Jacopo o Giacomo, che essi si premurarono da quell’istante di chiamare (guai a sbagliarsi!) con la fonetica sarda: Yaḫu, Yaku, Yaccu, Jagu. Fu tale la convinzione del popolo, che oggi ci ritroviamo una serie di località chiamate Santu Jaccu, Santu Jacci, e ritroviamo pure il cognome Giágu, tutti intesi come “Giacomo”!
Ma è ovvio che Iaccu, Giágu non c’entra nulla con san Giacomo apostolo. Iaccu, Giágu è nome di origine mediterranea. Non è il vezzeggiativo di Jacomo, come pensano De Felice e Pittau, ma si confronta linearmente con l’ebr. YHWH o YḤWH (leggi i-aḫu), con successiva variante patronimica latineggiante in -i: Jaci. Quindi anche i toponimi sardi noti come Jaci o Santu Jaci rimandano sempre al tetragramma ebraico (e sardo-mediterraneo). Esattamente come il cognome Giágu.
Prima di chiudere la discussione sul tema, va sottolineato che la grande paura degli Ebrei di pronunciare il nome di Dio è – tutto sommato – oltreché paradossale, relativamente recente: data dal 539 a.e.v., quasi 2500 anni, ed è possibile “storicizzarla”, decorrendo dal momento del ritorno babilonese e del rigorismo che ne conseguì. Ai tempi del Primo Tempio gli Ebrei invece praticavano una religione più ariosa e meno tabuica; ciò è dimostrato da una serie di nomi personali (e cognomi attuali, quale Netan-iahu) che sono nitidamente teoforici, ossia recano incastonato il nome di Dio, sia esso El o Yaḥwh. Vediamone qualcuno, partendo ovviamente dalla celebre esortazione ebraica (poi diventata anche cristiana) Allelùja, ebr. Hallelûyāh (הַלְּלוּ-יָהּ), che significa ‘preghiamo, lodiamo Dio’. Un altro termine ebraico che fa riflettere è Ahellil, designante i Salmi comincianti con l’invocazione Hallelûyāh.
Cito anzitutto il teoforico di un profeta ebreo, Gioèle ( יואל ), che racchiude il più antico nome di Dio, ossia El, abbinato a quello di Yhwh; significò ‘Yah[wh] è El’ ossia ‘Iaccu è proprio Dio!, è Dio medesimo!’. Esso è un arcaico nome nato ai tempi in cui si cominciava a identificare il nome del Dio siro-mesopotamico (El) col nome del Dio del deserto (Yḥwh).
Il teoforico Giovanni è ebraico, composto da Yeho + Chānān col significato di ‘Dio di Canaan’. Cfr. l’anglosassone John, una contrazione portata all’eccesso ma nella quale ancora s’intravedono i due radicali Jo (dalle tre apofonie Yah, Yeh, Yoh: vedi la contrazione יו in Gio-ele) + Hn (Chānān). A sua volta Canaan < ebr. כְּנַעַן ha la base etimologica nell’antico akk. qanānu ‘fare il nido, insediarsi’, qannu ‘il costruito’, qanu, qanā’u ‘tenere il possesso di’, ‘acquisire’; ma anche kânu ‘divenire permanente, stabile’ (di casa, territorio).
Va precisato che il nome del Dio del deserto, Yaḥ, Yḥ o Yhwh, in origine non fu altro che lo stesso nome del Dio Luna (sul quale torneremo ampiamente al Capitolo 8). Non fu un caso se il monte sacro del deserto frequentato dagli Habiru (i futuri Ebrei) fu chiamato Sināi, in onore del Dio lunare Sîn, un altro nome concorrente di Yaḥ. Il dio Luna Yah era conosciuto con lo stesso nome dall’Egitto a Babilonia. Da esso deriva il nome del patriarca Giacobbe, Yah’cobb, ‘Protetto dal Dio Luna’. Dopo la cacciata degli Hyksos dall’Egitto, il culto di Yaw continuò nella città di Ugarit sotto forma di demone del mare Yamm, ma decadde in Siria sostituito dal culto del dio della pioggia Baal Hadad. Mentre tra i nomadi Šasu Edomiti del Sinai continuò nella sua forma originaria Yhw: dio delle tempeste.
Un altro nome teoforico che propongo è Elìa, così noto dalla tradizione latina (Elias) e greca (Eleias, Elias) dall’ebr. Eliyyahu o Eliyyah: essendo lo stesso composto di Gioèle, ha ovviamente lo stesso significato: ‘El è Yahwh’, ‘El è proprio Dio’.
Altro nome teoforico è Zaccarìa, da ebr. Zekharyah (da zachar ‘ricordarsi’ e Yah ‘Dio’ = ‘Dio si è ricordato’).
Il teoforico Gioacchìno, ebr. Yohaqim è da Yah + qum ‘sollevare’ = ‘innalzato da Dio’).
Il teoforico Michèa, ebr. Mihan abbreviato da Mi-kha-yâh significa ‘chi è come Dio?’.
L’ebr. Ezeriel עַזְרִיאֵל è composto da ezer ‘aiuto’ + El ‘Dio’ col significato di ‘Dio aiuta’.
L’ebr. Matteo, Mattìa, Mattityahu מַתִּתְיָהוּ è composto da matath ‘dono’ + Yah ‘Dio’, col significato di ‘Dono di Dio’.
ISIS ‘Iside’. In egizio è detta Ȧst, Ast. Viene anche pronunciata come Iset col significato di ‘trono’, per l’acconciatura del capo a forma di trono. Nella pronuncia semitica e greca Ísis riconosciamo la base etimologica nel sum. isiš ‘dolore, tristezza’. Si conosce la storia teologica di questa figura, che fu per gli Egizi quella che per gli Occidentali è la Madre di Gesù Cristo. Come Cristo, suo marito Osìride muore e risorge ogni anno. Ella regnò assieme a Lui sugli uomini, creando delle buone leggi e governando il regno con equità, mentre il suo sposo andava guerreggiando per il mondo. Ella è il modello di sposa e di madre, che alleva il proprio figlio con immensa tristezza nel desiderio di vendicare l’uccisione di suo marito da parte del fratello Seth. Ella è la Madre Universale che tiene sulle ginocchia suo figlio Horus. Deriva da questa interpretazione il grande seguito che ebbero Iside e i suoi misteri nel mondo greco-romano. Iside concepì Horus dopo la morte di suo marito. In questa concezione pare di vedere in nuce il mistero teologico della “verginità di Maria”.
L’altro aspetto di Iside è quello di maga. Una leggenda del ciclo solare presenta Ra come un sovrano terrestre che, invecchiato, camminava sbavando; dalla terra bagnata dalla saliva Iside trasse un serpente che punse Ra. Qusti chiamò gli déi per riceverne sollievo ma nessuno vi riuscì. Iside si propose di risanarlo a condizione che Ra rivelasse il suo nome segreto, fonte della sua potenza. Ra tentò d’ingannarla dicendole svariati nomi, ma la dea non si lasciò ingannare e alla fine Ra rivelò il segreto. Iside divenne così la signora dell’Universo. Da tutto ciò Iside trae il suo carattere di divinità universale, fonte di vita e di potenza magica.
DIÓNISO, gr. Διόνυσος, è il dio della forza produttiva della terra, figlio di Zéus e di Semele, a sua volta figlia di Cadmo re di Tebe. Semele era una mortale, e volle vedere Zeus nel suo divino fulgore, ma ne rimase folgorata e partorì Dióniso prematuramente. Egli era già adulto quando la dea Era lo rese pazzo. In preda alla follia egli cominciò una lunga serie di peregrinazioni attraverso le più remote regioni della terra, Egitto, Siria, Asia, India, insegnando l’arte della coltivazione della vite e ponendo al tempo stesso le basi della vita civile. Passò in Tracia poi a Tebe, dove indusse le donne a lasciare le loro case e a celebrare feste in suo onore sul monte Citerone. Toccò pure Argo e infine, nel tragitto da Icaria a Nasso su una nave di pirati Tirreni, ripagò la loro malafede trasformando in serpenti l’albero e i remi e mutando se stesso in leone; l’edera spuntò tutt’intorno alla nave, avvolgendola, e si diffuse un suono di flauti. Scese poi nell’Ade riportandovi Semele e con lei ascese al Cielo.
Semerano OCE II 75 lo considerò all’inizio come divinità ellenica delle fonti (Delfi), e propose la base etimologica dal semitico di + ‘ain ‘fonte’, sentito poi come ‘οίνος ‘vino’: ebr. ‘ajin ‘spring, the sparkling of wine, il frizzare del vino’. Ma pure quest’etimo non è adatto. Per formularlo bene occorre ricuperare il mito della forza produttiva della terra, nonché la pazzia che Dioniso induceva mediante le feste sfrenatamente orgiastiche delle donne. Διόνυσος ha la base etimologica nell’akk. di’ûm ‘una malattia alla testa’ + nīšu(m) ‘libidine (sessuale)’, col significato di ‘malato di libidine sessuale’. Con tale etimo possiamo confermare la pazzia del semi-dio e la libidine sessuale di massa che il mito tramanda. “
Fonte:
Monoteismo Precristiano in Sardegna, Salvatore Dedola