Approfondimenti
Il Dio (o Dea) della Natura. I Misteri
“C’è una notevole messe di materiale storico, archeologico, linguistico che focalizza l’attenzione dei filologi verso un Dio della Natura attivo e onnipresente, che scaturisce dalle nebbie delle Origini. Incredibile a dirsi, da certi miti e dalla penna dei filologi sappiamo che tale Essere fu sempre un “dio minore”, talora fu un dio-uomo (o semidio); per contro, paradossalmente, le citazioni antiche a lui pertinenti sono sovrabbondanti rispetto a quelle degli altri déi. Egli è presente in molte manifestazioni relative al divino, e addirittura “contamina” – diciamo così – molte delle azioni attribuite agli altri déi del “pantheon”. Possiamo affermare che in parecchi “pantheon” si scorge un dio minore che si manifesta sia autonomamente sia “nel corpo” di altri déi, nel senso che l’uno e gli altri operano le stesse cose, scambiandosi i ruoli.
Naturalmente queste sono impressioni erronee, e vanno spiegate. Il tarlo dell’errore sta, a mio parere, nella pretesa dei filologi e degli antropologi di accreditare un pantheon anche dove sarebbe facile ammettere un Monoteismo: questa miopia porta a mescolare e travisare i dati sino a rendere irriconoscibile o equivoco lo stato delle narrazioni antiche.
Dobbiamo abituarci all’idea che un Dio della Natura non è mai esistito in quanto tale. Dobbiamo invece assumere come certo che il cosiddetto Dio della Natura non è altro che una epifania del Dio Sommo e Unico. Ciò è palmare, ed è ricavabile per vie interne in ognuno dei “pantheon” confezionati dalle menti religiose delle nostre accademie.
Anche per la Sardegna precristiana sembra superfluo precisare lo stesso percorso: il Dio della Natura non è un Dio separato e distinto, ossia collocabile in un inesistente pantheon sardo, ma è un’epifania del Dio Unico; per meglio dire, evidenzia e rappresenta uno dei poteri e manifestazioni di Dio, quello di regolare la Natura con i cicli di generazione, nascita, morte.
Le commistioni e sovrapposizioni degli attributi dei singoli déi possono ricevere un primo chiarimento razionale se evitiamo di considerarli da una specola ortogonale, ossia se non “schiacciamo” uno sopra l’altro, uno dentro l’altro, gli scenari che invece vanno distinti storicamente e antropologicamente.
Un metodo che può aiutare in questa impresa è quello di eviscerare, se non tutte, almeno alcune costanti delle religioni esistenti nelle società schiaviste (quale l’Egitto e la Mesopotamia). Ad esempio, gli studiosi hanno difficoltà a sistemare in modo completo, adeguato e perspicuo l’interminabile varietà della fenomenologia religiosa rilevabile nella plurimillenaria società nilotica. La religione egizia si complica anche per il fatto che il Nilo è troppo lungo, poco capace di favorire convergenze e vocazioni unitarie; esso covò entro i singoli nómoi le situazioni più diverse, governate ovviamente dal clero locale, rigidamente schiavista e conservatore. Al faraone spettò il difficile compito di aderire alla religione del nomo dove stava la reggia, e di lasciare agli altri nómoi (meglio dire, agli altri templi autonomi) la libertà di convergere all’unità nei tempi e nei modi sostenibili. Lungo il Nilo il processo di convergenza e di snellimento dei singoli “pantheon” non ebbe mai fine (anzi, ebbe persino dei riflussi traumatici, come al tempo di Akhenaton), e dai 5000 anni della storia egizia precristiana sortisce un “pantheon” spropositato e disomogeneo, reso tale però soltanto dalla nostra visuale, che ci porta a “schiacciare” uno sull’altro i vari strati storici ed anche i vari spezzoni della valle del Nilo.
Una buona costante di metodo aiuterebbe a sistemare meglio la questione, se solo volessimo supporre le radici monoteistiche in ciascuno dei nómoi nilotici. A questo proposito la vicenda di Akenaton, che sembra effimera, è in realtà una chiarissima traccia del fatto che il monoteismo in Egitto era un fatto normale, ma non potè divenire un fatto unitario dello Stato, per l’opposizione strenua dei singoli monoteismi nei singoli santuari, timorosi di perdere enormi fette di potere, o addirittura di soccombere per metastasi rivoluzionaria.
Tutto sommato, quei vari monoteismi pretesero di stare divisi in forza delle varie nomenclature e dei vari modi di rappresentare il divino, non certo in forza di una sostanza facilmente riconoscibile come unificante. La storia religiosa dell’Egitto ripetè nel suo piccolo la macro-storia del mondo in cui viviamo, che s’involtola da millenni in una lunga serie di distinzioni e contrapposizioni, persino di gemmazioni, anziché evolversi verso una convergenza fervidamente vocata all’unità del sentire e della purezza del pensiero profondo.
Un’altra costante di metodo dovrebbe consistere nel reimpiantare tutta la questione del Matriarcato. Una serie di dati aiuta a capire che la realtà religiosa delle Origini fu dappertutto matriarcale. E questo fenomeno, se per un verso semplifica e fortifica la visuale delle indagini, per altro verso la complica al momento in cui scopriamo che la Dea Madre dell’Universo cede il passo, storicamente, al Dio Padre dell’Universo.
(…)
Oltre a un buon metodo per considerare meglio la questione del Monoteismo e quella del Matriarcato, occorre avere un buon metodo per considerare meglio la questione dei Misteri. Molti studiosi mettono in risalto un dualismo storico tra la religiosità popolare e la religione di Stato. E pare generale l’assenso sul fatto che le religioni dei Misteri siano tutte di origine popolare, avversate dalle corti, dai patrizi, dai potenti, dagli opportunisti. Molti giurerebbero che – tutto sommato – Diòniso fu un dio minore persino nel nome, ch’essi traducono come ‘figlio di Dio’, dal traco-frigio nùsos ‘figlio’. Ma siamo veramente sicuri che sia questo l’esito etimologico? Vediamo.
DIÓNISO, gr. Διόνυσος, è il dio della forza produttiva della terra, figlio di Zéus e di Semele, a sua volta figlia di Cadmo re di Tebe. Semele era una mortale, e volle vedere Zeus nel suo divino fulgore, ma ne rimase folgorata e partorì Dióniso prematuramente. Egli era già adulto quando la dea Era lo rese pazzo. In preda alla follia egli cominciò una lunga serie di peregrinazioni attraverso le più remote regioni della terra, Egitto, Siria, Asia, India, insegnando l’arte della coltivazione della vite e ponendo al tempo stesso le basi della vita civile. Passò in Tracia poi a Tebe, dove indusse le donne a lasciare le loro case e a celebrare feste in suo onore sul monte Citerone. Toccò pure Argo e infine, nel tragitto da Icaria a Nasso su una nave di pirati Tirreni, ripagò la loro malafede trasformando in serpenti l’albero e i remi e mutando se stesso in leone; l’edera spuntò tutt’intorno alla nave, avvolgendola, e si diffuse un suono di flauti. Scese poi nell’Ade riportandovi Semele e con lei ascese al Cielo.
Semerano OCE II 75 lo considerò all’inizio come divinità ellenica delle fonti (Delfi), e propose la base etimologica dal semitico di + ‘ain ‘fonte’, sentito poi come ‘οίνος ‘vino’: ebr. ‘ajin ‘spring, the sparkling of wine, il frizzare del vino’. Ma pure quest’etimo non è adatto. Per formularlo bene occorre ricuperare il mito della forza produttiva della terra, nonché la pazzia che Dioniso induceva mediante le feste sfrenatamente orgiastiche delle donne. Διόνυσος ha la base etimologica nell’ akk. di’ûm ‘una malattia alla testa’ + nīšu(m) ‘libidine (sessuale)’, col significato di ‘malato di libidine sessuale’. Con tale etimo possiamo confermare la pazzia del semi-dio e la libidine sessuale di massa che il mito tramanda.
MÉNADI. Ora che sono entrato a ripulire un’etimologia della civiltà greca, debbo percorrere interamente il mito di Dióniso, prima di tornare alle manifestazioni tipiche della Sardegna. Le Μαινάδες erano le Baccanti, le seguaci di Dióniso o Bacco, il quale fu il dio della forza generatrice della Terra. Più precisamente, erano indicate come Ménadi: 1. le compagne di Dioniso durante i suoi errabondi viaggi in Oriente, 2. le sacerdotesse vere e proprie di Dióniso, che celebravano i riti in onore del dio.
Gli etimologisti sostengono unanimemente che Μαινάδες significhi ‘pazze’, dal gr. μαίνομαι ‘sono furente, infurio, smanio, sono fuori di me’; e in effetti μαινάς, μαινάδος in greco è la ‘forsennata, furibonda’, la ‘furia’. Ma i grecisti non rendono conto del secondo membro del composto (-άδoς).
Va osservato, ai fini dell’etimologia, che in origine le donne che accompagnavano Dióniso furono le Grazie, in greco Χάριτες, la cui arcaica etimologia è dall’ akk. kâru(m) ‘essere stordito’ + ittu(m) ‘caratteristica, natura speciale’: stato costrutto kâr-ittu, col significato di ‘quelle dello stordimento, quelle fuori di sé’. Soltanto in seguito Dióniso risulta essere accompagnato da stuoli di Ménadi, la cui base etimologica fu l’akk. mēnum ‘love’ + adû(m) ‘quota di lavoro a giornata’.
Esplicando le due traduzioni ed attenendoci alla tradizione semitica cui esse sono riferibili, sembra di capire che già nelle età arcaiche avvenne una con-fusione concettuale, onde le accompagnatrici del semi-Dio ebbero dapprima la caratteristica dello stordimento (a dirla tutta, si drogavano o s’ubriacavano alla ricerca dell’estasi). In seguito, col pieno dilagare della prostituzione sacra presso i popoli egei, le Chárites divennero Ménadi, ossia prostitute che operavano a tempo pieno al servizio del Dio della Natura.
Ovviamente, l’accatto di tale tradizione presso il popolo greco, che (almeno in epoca storica) non accettava più la prostituzione rituale, ebbe la tendenza a “ripulìre” alquanto le cose, non però sino al punto da imbrigliare il mito e la realtà delle celebrazioni, che furono sempre delle libere e sfrenate manifestazioni orgiastiche. Le ὄργια, ‘i riti, le orge’ in onore della divinità, richiamano gr. ’έργον ‘lavoro’ e Fέρδω il cui significato originario è ‘compio il servizio divino, servo il dio; sacrifico al dio’, cfr. akk. wardu, ardu ‘chi è addetto al culto del dio, schiavo addetto al lavoro (del tempio)’.1
I destini congiunti dei due significati originari di Chárites e Ménades convergono in perfetta triangolazione sia col mito della follia sia col mito della forza generativa, che Dióniso unifica in sè. E convergono anche col fenomeno del Carnevale (vedilo al Capitolo 10) il quale fin dall’inizio del Neolitico non fu altro che un rito di liberazione e rinnovamento delle forze riproduttive, volte alla rinascita della Natura.
MAINÓLES. Questo appellativo greco, reso famoso da Diónisos Mainóles, viene tradotto normalmente come ‘Dióniso il pazzo, il folle, il delirante’, che i più credono derivato dal gr. μαίνομαι ‘sono pazzo, dò in escandescenze, sono folle’.
In realtà il termine è molto arcaico, ed ha la base nel sum. maḫ ‘to be great’ + nu ‘creatore’ + ulu (a demon): maḫ-nu-ulu, col significato sintetico di ‘Grande demone creatore’. Sappiamo infatti che Dióniso fu il démone ri-generatore della Natura, la quale rinasceva ogni volta ad opera dello sperma del dìo, sotto forma di pioggia rigeneratrice.
Se riporto questa etimologia è soltanto per correggere un’interpretazione di Dolores Turchi che crede erroneamente Mainóles la base del sardo Maimòne, un démone delle acque. Quest’ultimo deriva dal vocabolo ebraico maim ‘acqua’, akk. māmū ‘acqua’ + sum. unu (la parte più sacra di un tempio), col significato di ‘tempio delle acque’ riferito alle fonti sacre della Sardegna nuragica.
NARCÍSU. Anche questo personaggio sardo è in relazione col Dio della Natura. D. Turchi tratta lungamente del Carnevale di Lula e del suo personaggio principale, su Battiléddu (v. Capitolo 11 sul Carnevale in Sardegna), che è la solita “vittima sacrificale” tipica dei Carnevali della Sardegna centrale, avente nomi differenti secondo i villaggi. Nello stesso capitolo scrive che il personaggio-fantoccio di Fonni, destinato al rogo, è chiamato Narcísu, perché «Core fu rapita da Ade mentre coglieva un narciso e pertanto anche Narcisu le appartiene». Ella quindi ricorda Narciso come uno degli epiteti di Dioniso. La Turchi ribadisce con nonchalance nell’intero libro che il Carnevale sardo abbia origini culturali direttamente dall’antica Grecia, segnatamente dal culto di Dioniso. Il che non è. Tutti i personaggi carnascialeschi citati nell’opera della Turchi, pur rispondendo ad un clichet adeguato al culto di Dioniso, sono in realtà mediterranei, ossia rispondono a un culto omogeneo e generalizzato appartenuto un po’ a tutti i popoli mediterranei fino ad epoca bizantina.
Non si tiene conto del fatto fondamentale che il Carnevale fu una cerimonia sacra protratta per settimane a cominciare dal Capodanno solare; mediante essa il popolo, fin dalla notte dei tempi, espresse insistentemente il bisogno dell’acqua purificatrice. Il personaggio che viene spinto alla morte (e resurrezione), in questo caso Narcísu, è un appellativo del Dio della Natura, rappresentato anche con questo epiteto. Il narciso è un tipico fiore d’acqua, che nasce specialmente sui bordi umidi degli stagni. I bordi delle paludi che costellano la Giara di Gésturi in primavera si ammantano di narcisi. Questi, beninteso, non fioriscono soltanto presso le paludi ma pure nei terreni umidi dove le piogge tendono a rendere le zolle acquitrinose. Non è un caso che i vari miti greci, pur nella varietà del racconto, accomunino il personaggio Νάρκισσος all’acqua, ai fiumi, agli stagni. E l’etimologia si basa proprio su tali concetti: semitico naḫar ‘fiume’, akk. nārum ‘fiume’ + giṣṣu ‘cespuglio’, kissu ‘stelo’ (stato costrutto nār-kissu), col significato sintetico di ‘stelo delle acque’. (…)”
Fonte:
Monoteismo Precristiano in Sardegna, Salvatore Dedola
[8. Il Dio (o Dea) della Natura. I Misteri]