Approfondimenti
EDIFICI SACRI PRECRISTIANI
(…) Possiamo scompartire gli edifici sacri precristiani in sette classi: circolo solare, menhir, ziqqurat, nuraghe, tomba di giganti, domus de janas, pozzo. (…)
I MENHIRS. GLI ALBERI SACRI. I CIRCOLI SOLARI. IL “ROVETO ARDENTE”. I SOVRANI SACRALIZZATI
– I MENHIR, IL BENBEN
Essendo possibile restituire il nome originario ad ogni monumento tipico del vasto mondo archeologico della Sardegna, siamo ovviamente in grado di restituire il nome a sa perda fitta (‘pietra infissa’ a terra), nell’occidente europeo chiamata menhir (in modern welsh ‘long stone’), bètilo nel Vicino Oriente (ebr. bet-El ‘casa di Dio’). Il bètilo o menhir è la più antica forma che, agli occhi del semita, poteva esprimere la divinità: una scultura aniconica, come si deduce dal testo biblico ove si narra del betilo in forma di cippo che Giacobbe ricavò dalla pietra da lui usata come capezzale. Nella storia biblica di Giacobbe bet-El è appunto il nome del luogo sacro rivelatosi casa di Dio e contrassegnato da un cippo.
In Sardegna è sopravvissuto il toponimo Betilli in agro di Sàdali, dal quale si conferma che un termine simile a quello ebraico era di casa pure in Sardegna. La grande isola al centro del Mediterraneo un tempo aveva eretto non meno di 10000 betili, stando all’enorme quantità rinvenuta (e subito sepolta o distrutta, per paura dei crudeli stop della Sovrintendenza Archeologica) durante la Riforma Agropastorale di circa 40 anni fa, la quale comportò vastissimi sbancamenti e scarificazioni in tutta la Sardegna.
Ovviamente, per questa ingombrante e arcaica presenza in Sardegna non si può parlare di accatto levantino, e nemmeno occidentale (nonostante la grande quantità di menhirs dell’Europa franco-anglo-brettone, la cui densità per area rimane peraltro inferiore, confrontata a quella sarda …che però non è documentata ufficialmente). Il fenomeno fu pan-europeo, pan-mediterraneo, africano, e anche sud-americano (vedi, in Colombia, El Infiernito). È impossibile stabilire un focus originario, checché ne dicano certi accademici dell’Università di Cagliari, pronamente e pregiudizialmente innamorati dell’origine occidentale della cultura sarda. Parimenti taccio degli accademici “succubi” dell’origine levantina.
Nell’antichissima città fenicia di Biblos c’era una pletora di bétili, stando agli scavi. Ci furono ugualmente del bétili nella città cananea di Hazor (Galilea superiore), citata più volte tra le città conquistate dai faraoni del Nuovo Regno come Tutmosi III (XV sec.), Amenhotep IV (XIV sec.) e Seti I (XIII sec.). Hazor era già comparsa alla storia nei testi di esecrazione egizi e nelle tavolette di Mari (XVIII sec. a.e.v.). Ma le citazioni più esaurienti sono le lettere di Tell el-Amarna, nelle quali Hazor chiede aiuto al Faraone contro i Khabiru (Ebrei), i fuoriusciti che creavano gravi disordini e attentavano alla libertà di diversi centri dell’area. Hazor raggiunse il massimo sviluppo nel Bronzo Medio, mantenendo inalterata la sua fisionomia sino al XII sec. a.e.v. Vi si trova il Tempio degli Ortostati, caratterizzato dal rivestimento interno in pietre ben squadrate. Ma Hazor ha principalmente un piccolo Tempio delle Stele, costruito alla fine del Bronzo Tardo (1300 a.e.v.) dove si è conservata la statua di culto assieme a 17 stele votive (altezza da 27 a 65 cm) all’interno della nicchia circolare ricavata nel muro di fondo dell’unico ambiente. Esse ricordano le stele votive fenicie, es. quelle di Cartagine.
Anche a Gezer (Israele) si trovarono, nel sito alto, numerose piccole stele, in un luogo del tutto aperto (senza tetto).
Sappiamo che a Palmyra si adoravano anche i betili, pietre ritenute sedi delle divinità, che venivano portati in processione. La quale richiama la processione dei phálloi in Atene nonchè la sempreviva processione dei Candelieri a Sàssari, sebbene gli uni e gli altri fossero (siano) di legno.
In Egitto i templi uranici erano numerosi. Erano templi solari che avevano come elemento principale un obelisco su una piattaforma, simbolo del dio-Sole. Gli obelischi (parola greca), dagli Egizi detti ṭekhenu, cominciarono a essere costruiti durante la V Dinastia (quella eliopolitana, intorno al 2300 a.e.v., ossia dopo la nascita dei rozzi menhirs sparsi nel resto del mondo), divenendo usuali nel Medio Regno e specialmente nel Nuovo Regno.
All’obelisco è connaturato il Benben [foto 004, foto 005], il quale nella mitologia egizia, più specificamente nella cosmogonia di Eliopolis, era la collina primigenia ch’emerse dall’oceano primordiale del Nun, e sulla quale il dio creatore Atum (il Sole) generò se stesso e la prima coppia divina. Nei Testi delle piramidi (linea 1587) si fa riferimento ad Atum stesso come “collina”: si dice che si trasformò in una piccola piramide, situata in Annu, il luogo ove si diceva risiedesse.
Benben potrebbe significare “il radiante” (riferito al Sole), ed era una pietra sacra conica venerata nel tempio solare di Eliopoli sulla “collina di sabbia” del tempio ove il dio primevo si era manifestato e nel luogo dove cadevano i primi raggi del sole nascente. Il medesimo culto era celebrato anche a Napata e nell’oasi di Siwa ove la pietra conica fu, in epoca tarda, paragonata a un “umbilicus”. Si ricollegava comunque sempre al dio creatore, e nella mitologia elaborata dal clero eliopolitano “rappresentava senza dubbio un raggio di sole” (Gardiner). Non possiamo trascurare la somiglianza tra l’egizio ben (raddoppiato in ben-ben) e l’anglosass. beam ‘raggio di sole’. In accadico a indicare la “collina” primigenia, o monte, abbiamo lo stesso termine, che però scambia la labiale con la gutturale: gennu ‘monte’, equivalente proprio al radicale egizio ben.
Verosimilmente il Benben, visto il suo importante significato religioso, fu il modello di riferimento in varie strutture architettoniche, quali gli obelischi del templi solari, ad Abu Gurab, la cuspide degli obelischi ed il Pyramidion. Dalla forma conica originaria la pietra fu quindi trasformata in piccola piramide a base quadrangolare e cuspide sovente coperta da lamine d’oro.
Al medesimo mito era collegata la fenice, il mitico e favoloso uccello chiamato, guarda caso, Benu, anch’esso venerato a Eliopoli, che si diceva vivesse sul Benben. La linea 600 dei Testi delle Piramidi recita di Atum: “tu che sorgi come il benben, nella Dimora del Benu in Eliopoli…” (Hart p. 16).
In un testo tebano del tempio di Khonsu, anch’esso identificato con la collina primeva, il benben si sarebbe formato dalle gocce del seme di Atum, cadute nell’oceano primordiale e che, solidificandosi, avrebbero formato il primo tumulo contenente al suo interno lo spirito del dio.2 E così notiamo per l’ennesima volta che il Sole, la sua radiazione, il benben-phallos, lo sperma del Sole (Atum) sono la stessa cosa, che si esprime mediante varie epifanie, alle quali talora (ma non sempre) sono dedicati templi diversi.
Da tutto quanto precede riusciamo a capire che nel Mediterraneo, tre millenni a.e.v., non solo venivano costruiti dei recinti sacri per l’adorazione della Luce, ossia del Sole, ma che entro tali recinti si erigevano delle steli, dei menhirs, le quali erano erette con due intenti convergenti: per onorare il Dio Sole (che è il generatore e rigeneratore del Mondo) e nel contempo per onorare gli antenati (funzione rigenerativa attribuita al menhir). A maggior ragione i menhirs venivano eretti per ricordare i sovrani sacralizzati.
In CAT3 1.113 c’è un elenco di sovrani sacralizzati. Esso non è certo il solo esempio nel Vicino Oriente, ma forse conviene notare come la pratica religiosa che ne è alla base – il culto degli antenati – risalga come minimo al III millennio a.e.v.: a Ebla (ca. 2400 a.e.v.) è stata trovata una piccola tavoletta contenente un testo molto simile a quello ugaritico. Anche in questo caso si tratta di sovrani defunti sacralizzati, dieci per l’esattezza, ai quali sono recate in offerta altrettante pecore.4
Nel mondo ugaritico c’era l’esigenza di erigere, all’interno dei témenoi, le steli per gli antenati, il cui capostipite era divinizzato (si presume tra i nobili). Nel poema di Aqhatu, Daniilu procede a sette giorni d’incubazione per avere un figlio, per tutte le ragioni che sappiamo ma anche per avere “uno che eriga la stele dell’antenato divinizzato”. È lo ilib (vocal. ilibu), lett. “dio-padre”, l’antenato divinizzato e protettore del clan familiare. Il nome appare anche nel sud del territorio cananeo, a Lakiš, in un’iscrizione cananea del XIII sec.5
Ma dicevamo che i menhirs originari rappresentarono nella loro corposità statuaria anzitutto il membro fecondatore del Dio Universale. Nel mondo antico il phállos era ritenuto l’origine della vita. Per questo le antiche civiltà lo trasformarono in divinità: per i Babilonesi il dio Enki aveva creato il tigri e l’Eufrate col suo pene, e l’acqua di quei fiumi rappresentava, di per sé, lo sperma del Dio. Gli Assiri e i Fenici adoravano il dio Kmul, divinità dall’enorme membro, potente generatore della vita. Nella biblica Canaan i re mangiavano il pene del predecessore per assimilarne il potere. Le antiche popolazioni israelite giuravano ponendo la mano sull’organo. Il romano Persio designò i coglioni come testes ‘testimoni’, indicandoli come i testi dell’atto sessuale.
Il pene eretto era adorato per propiziare la fecondità: nel templi indù dedicati a Shiva c’era il linga (phállos di pietra), venerato per favorire la fertilità delle donne. I Greci facevano le falloforie, processioni con enormi statue di falli, per incrementare i raccolti. Lo storico greco Kallixeinos di Rodi racconta d’aver visto nel 275 a.e.v. una festa dionisiaca ad Alessandria, durante la quale un phallos aureo lungo 60 m con in cima una stella d’oro fu portato in processione davanti a mezzo milione di persone che intonavano inni in suo onore. Nell’alta antichità quello era il modo più adeguato per onorare l’Altissimo.
La Sardegna aveva migliaia di betili (phálloi di pietra), iconici e aniconici. La loro distruzione e l’oblio, dal primo Medioevo ad oggi, sono stati immensi, ma la passione degli studiosi locali sta fornendo all’archeologia sempre nuovi ritrovamenti (parlo di quelli ufficializzati), come i betili iconici di Isili. Che in Sardegna sas perdas fittas (o scittas, come dicono a Láconi) fossero in numero altissimo, è dimostrato pure dai numerosi reperti etimologici che di seguito inventario.
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COSSÌGA. Pittau DCS sostiene che questo cognome precipuamente sassarese abbia l’accento sbagliato, dovendosi pronunciare Còssiga perchè – sostiene – significa letteralmente ‘Còrsica’, quindi ‘originario della Corsica’. Così pensa pure Maxia (DCSC 46), in virtù di una (supposta) controprova, che è un torrente in territorio di Pérfugas situato lungo il confine linguistico tra sardo-logudorese e corso-gallurese, su riu de Còssiga. A rinforzo, Maxia ricorda che a Sassari c’è l’etnico Cossigu attestato fin dal 1388. Non metto in dubbio la bontà delle spiegazioni dei due linguisti, specialmente di quelle del Maxia. Però osservo che le leggi formative dei cognomi sardi non iniziano dal Medioevo. Il cognome Cossìga non può essere sortito da un originario Còssiga (sul quale poi avrebbe operato il modello dei cognomi campidanesi in -ìga), come immagina Maxia. Cossìga è una formazione antichissima, e se poi ha subìto modelli campidanesi tipo Corrìga, ciò avvenne partendo dalla base accadica ḫusīgu (a stone). La riprova di quanto dico è proprio nel cgn Cossighéḍḍu, che significa ‘pietra sacra’ (ossia perda fitta).
COSSIGHEDDU cognome attestato nella provincia di Nùoro. Pittau lo crede corrisp. al diminutivo del cgn Cossìga, indicante secondo lui la filiazione del primo dal secondo. Ma -éddu non ha mai indicato né filiazioni né diminutivi, essendo un originario termine accadico (ellu) che indica qualcosa di ‘puro, limpido, pulito’ riferito alla ritualità. Quindi, poiché Cossìga significò una ‘pietra’ non meglio identificata, è chiaro che Cossigh-éḍḍu significa la ‘pietra sacra’, ossia sa perda fitta.
OLLÓSU cognome che fu un epiteto sacro sardiano, con base nell’akk. ullu (un toro) + ušû (a hard stone). Sembra di capire che denominasse sa perda fitta, il menhir, col significato di ‘pietra del Toro’, riferita al Dio fecondatore dell’Universo.
RANA cognome che non corrisponde al sost. rana ‘rana’, come pretenderebbe Pittau DCS. Il termine è arcaico, e in origine indicò sa perda fitta, la stele, il menhir, da sum. ra ‘puro, limpido, sacro’ (vedi il dio egizio Ra) + na ‘stele, pietra’, col significato di ‘pietra santa’ (…)
– I CIRCOLI SOLARI
Abbiamo appena notato, studiando i lemmi relativi ai menhirs, che quei monumenti, oltre a essere statue ad memoriam di qualche personalità di riguardo, sono a un tempo delle effigi del sacro Phallos, erette in onore del Dio Sole Fecondatore (quindi, mutatis mutandis, in onore del Dio della Natura, che è l’epifania del Dio Unico). Però non si scappa affatto dalla considerazione che parecchie tipologie di monumenti sacri sono fungibili, assolvono alla stessa ideologia solare, come vedremo anche per i nuraghes.
Pure i “circoli solari” sono costruiti per onorare il Dio Sommo nella sua epifania solare. La Sardegna non fu ovviamente la sola, poiché in tutto il mondo il Sole fu adorato con simboli vari ma convergenti, anzitutto con la la circolarità nelle sue innumerevoli varianti. Ad esempio, per i Navajos la divinità più importante è il Grande Spirito (Dio Unico) che abita al centro del Sole. Il cerchio rappresenta per i Pellerossa il fondamento della natura (sole, luna, rotazione delle stelle e delle stagioni). Questa circolarità la ritroviamo costantemente nella loro vita, nel mito, nei riti (danze attorno al fuoco), nell’arte e nell’organizzazione della comunità.
Anche il témenos greco (< sum. temen ‘fondazione’, nel senso di area costruita, delimitata) ebbe origine per queste ragioni. Era il ‘recinto sacro’ per antonomasia, l’area consacrata entro la quale, in seguito, poterono trovare sede i templi. In origine quel recinto di pietra dovette essere perfettamente circolare.
Un noto simbolo solare è la svastika che, prima dell’abuso scellerato fatto dai Nazisti nel XX secolo di questa Era, veniva disegnata un po’ da mezzo mondo fin dal Paleolitico, persino in America dai Navajos. In Italia apparve nel I millennio a.e.v. presso i Villanoviani ed i Sanniti, ed è stata ritrovata pure a Pompei, Stabia, Ercolano. In Europa, la cultura neolitica Vinca la utilizzò. Fu utilizzata molto nelle culture iraniche del I millennio a.e.v., e comparve anche nella cultura buddhista a indicare la “”Ruota della Dottrina”, la quale significava l’infinito, il tutto che si manifesta nella coscienza di un buddha. Ed è per questo che molte statue del Buddha ce l’hanno graffita sul petto. In ambito induista il simbolo è associato al Sole e alla ruota del mondo che gira attorno a un centro immobile, quindi è emblema di Viṣṇu e Kṛṣṇa.
A parte i templi senza tetto dell’Egitto e quelli tondi posti sopra gli ziqqurat, tondi al pari del nuraghe, larga diffusione ebbe il santuario all’aperto siro-palestinese, collocato presso gli alberi, le fonti e soprattutto le alture. Esso era formato da un recinto, un altare o più pietre sacre (menhirs), in cui si riteneva risiedesse la divinità locale.
In Sardegna il “circolo solare” fu nominato con quattro termini, che sono cumbessìa, curzéddu, jacca, muristénis.
CUMBESSÌA è il particolare muro che circonda le chiese campestri, normalmente edificato a cerchio attorno al tempio, dove dimorano i novenanti. La base etimologica è nel sum. ḫum ‘onorare’ + me ‘ufficio sacro, ordinanza del culto’ + ši ‘essere, diventar stanco’: ḫum-me-ši, col significato letterale di ‘(luogo de)gli stanchi, ossia dei pellegrini, che onorano l’ufficio sacro’.
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GONÁNU. Aggiungo questo cognome, avente la base nel sum. gunu ‘sito di residenza, sito di fondazione’ + akk. Anu (sum. an) ‘Dio sommo del Cielo’: un vocabolo quindi che indica il ‘tempio di Anu’, forse nel senso proprio di “tempio uranico”. Questo termine arcaico pare indicasse genericamente ogni tempio adibito all’adorazione del Sole. In epoca “shardana” in tal guisa dominarono i nurághes, nurágus, ma prima di essi vi furono gli ziqqurat, affiancati nell’uso dai semplici témenoi, aree sacre recintate dette in sardo curtzéddus (da akk. kurītu) o jaccas, che sono appunto i “circoli solari”.
– ALBERI SACRI
In Sardegna anche l’albero (la quercia) ebbe dignità di monumento-statua del Dio Sole in quanto Dio Fecondatore dell’Universo; ìlixi, èlighe ‘leccio’, da ‘come un dio’ fu l’immagine originaria del Dio Sole e della paredra Ištar, ed entrò nella triade (assieme al circolo solare e al menhir) a rappresentare la più arcaica Unità di Dio dell’Umanità. Il papa Gregorio Magno si era impressionato molto a sapere che in Sardegna, allo scadere del VI secolo dell’Era volgare, si adoravano ancora ligna et lapides; nessuno gli aveva riferito che pure il terzo segnacolo, il circolo solare, era indissolubilmente legato agli altri due. Delle lapides nella Sardegna centrale abbiamo il nome (che era appunto bétilu o betillu: vedi Betilli). Il nome delle ligna, che rappresentavano segnatamente la dea Astarte ma anche, direttamente, il Sole nella sua epifania di Dio della Natura, era iliannu e pure mùdulu. Iliannu in accadico significa ‘albero’ e da tale lemma prende nome Sa Perda Iliàna (limite montano tra Seùi e Gàiro), un’alta rupe fusiforme diritta come un albero sacro, rappresentante il phallos del dio-Toro, di Ilu dio supremo ugaritico, che in accadico produce ilānu ‘dio, deità’.
L’altro termine mudulu (altra forma accadica per dire ‘palo’) si ritrova nel nome del paese Mòdolo. In Mesopotamia, con la penuria assoluta di alberi, quando questo era ricevuto per dono o per commercio dai popoli limitrofi lo si usava per conficcarlo, costruirvi attorno il témenos del tempio e adorare la dea della fecondità Astarte (assira Ištar, sumera Dilbat).
Nel primo Medioevo sardo il termine ‘palo sacro’ era oramai chiamato alla latina, pālus ‘phallos’, e da questo termine deriva il nome del sito di Su Palu (nella códula d’Ilùne), nonchè il nome del santuario di Nostra Sennora de Balu Irde (Dorgáli), altrove ormai corrotta in Valverde. Ci sono infine delle località recanti proprio il più antico nome locale del palo sacro: una di queste è Oléri.
Da tutto ciò ricaviamo che dell’antico albero sacro o palo sopravvivono in Sardegna ben quattro nomi arcaici: Oléri, iliánu, mùdulu, palu. Li vedremo analiticamente qua apresso. Prima però faccio osservare che la tradizione de su Palu in Sardegna è ancora vivissima. Con essa si dà la stura alle cerimonie che aprono solennemente il Carnevale. Di seguito descrivo l’inizio del Carnevale di Oroséi. Ma osservo che nei vari paesi le variazioni più o meno marcate non sono tali da eludere la centralità del Palo-Phallos e del Fuoco.
A partire dal mattino dell’Epifania (6 gennaio), i villani da soli o in comitiva provvedono alla raccolta e al trasporto della legna destinata in parte a un grande falò comunitario e in parte a singoli falò rionali. A Oroséi il falò comunitario è predisposto entro il vasto cortile della chiesa di S.Antonio, dove in precedenza è stato piantato un alto palo di cipresso (su piròne). Il pomeriggio del 16 gennaio la catasta di legna assume forma conica. A Oroséi il palo viene sormontato da una grande croce fatta con arance. Alle 17,30, subito dopo il vespro, il sacerdote preceduto dal simulacro di S.Antonio benedice il fuoco appena acceso in più punti.
La gran folla inizia a compiere attorno al falò tre giri rituali mentre, sfidando le fiamme già alte, un gruppo di ragazzi s’avventura alla conquista delle arance. A misura che il calore allontana vieppiù gli spettatori, tutt’attorno il comitato organizzatore distribuisce vino, caffè, soprattutto il dolce tipico della festa: su pistiddu (farina, miele, aromi naturali) e su pane nieddu (farina, miele, lievito, sapa).
Contemporaneamente s’accendono i falò rionali, allestiti da singole famiglie per assolvere un voto. A casa di queste famiglie la sera si consuma un ricco banchetto, con parenti e amici. Dalla direzione del fumo si traggono auspici per l’annata agraria, e poi le ceneri vengono raccolte a scopo terapeutico contro le malattie addominali dei bambini.
Negli altri villaggi al centro della pira non viene messo il cipresso ma, tradizionalmente, la quercia, scelta tra le più belle, le più grandi e le più sane del territorio. Forse per spirito ecologico, in molti paesi da parecchi decenni si sceglie – tra le maggiori – la quercia che presenti notevole longevità e quindi sia cava. Si parla infatti spessissimo di tuvu, tuvòni, tuviòni, tuva manna, e simili, agg. ‘cavo, profondo’ detto d’alberi, e per estensione ‘cavità’: cfr. osco *tufus, latino tubus. Vedi il toponimo Tuvióis (Sìnnai). La base etimologica è il bab. ṭubû ‘un genere di canna’.
PALU. dal sum. pa ‘ramo’, ‘fronda’, ‘virgulto’ + lu ‘divampare, ardere’, col significato di ‘virgulto ardente’ (ossia ‘bastone verde che arde’; akk. palû (un genere di bastone), (simbolo di regalità); gr. φάλλος. Questo è lo stesso significato che dò al mitico “roveto ardente” dell’Esodo, ch’era un virgulto, un ramo, un palo, un phallos, rappresentante ancora sempre il Dio Sole (sull’Oreb, montagna aridissima, era quasi impossibile trovare roveti).
Che il sardo palu indicasse direttamente su cazzu, ossia il ‘membro virile’ quale effige del Dio Sole, è dimostrato dalla lingua egizia, che indicò la ‘forma del Dio Sole’ con Qaṭ, corrispondente, anche nella fonetica, al sardo Cazzu; mentre in egizio ‘roveto’ è indicato con qatcha (termine derivato dal primo). Gli Ebrei (gente di origine sumerica), allorchè scrissero l’Esodo perseguendo il loro programma di edificazione monoteistica, optarono per il blando lemma sumerico pa-lu ‘virgulto (ardente)’ che calzava semanticamente col loro seneh סְנֶה ‘virgulto, macchia’, espressione meno forte del simbolo egizio riferito direttamente al ‘membro virile’.
Non posso comunque tacere che sul “roveto ardente” la Bibbia ebraica non ha contribuito a fare chiarezza. Talchè lo stesso “roveto ardente” citato in Es 3:2-4 e in Acta 7:30 dalla massa dei biblisti è interpretato più che altro come Cassia.
– GLI ZIQQURAT
ACCOḌḌI. So che la disputa cronologica – più o meno sotterranea – è accesa pure per questo monumento, che è l’unico vero ziqqurat della Sardegna, anzi l’unico ziqqurat del Mediterraneo occidentale. Alcuni vorrebbero retrodatarlo, senza forzature, di 1-2 millenni. Stante la sua tipologia arcaica, la retrodatazione sembrerebbe congrua, anche se mi rendo conto che in tal guisa la Sardegna apparirebbe come l’ideatrice del primo ziqqurat della storia, da cui s’evolvette il più maturo modello sumerico o elamita. Ma pure la cronologia seriore lascerebbe in piedi, se non il primato storico del monumento sardo, almeno la sua coevità agli ziqqurat più antichi, quale quello di Sialk [Foto 008] (il quale però è elamita); quest’ultimo – guarda caso – ha forma quasi identica a quella sarda.
Monti d’Accoḍḍi sta in territorio sassarese lungo l’ex statale 131 in direzione Porto Torres. Non si tratta di un vero “monte” ma di un piccolo rilievo (tell), il quale una volta scavato diede alla luce uno ziqqurat alto oltre 9 m, datato nell’ambito della Cultura di Ozieri (circa 3500 a.C.). Qualche altro daterebbe il nostro ziqqurat al 2800 a.e.v., al tramonto dell’epoca sumerica.
Sembrerebbe oramai accertato che esistano almeno altri due ziqqurat, uno dei quali a Pozzomaggiore. Secondo Leonardo Melis (comunicazione del 15 luglio 2011), ne dovrebbero esistere, già accertati, almeno otto e – previo accertamento – altre decine. Quindi la Sardegna pare avere degli ziqqurat, tutti di estrema antichità, che sarebbero più arcaici di quelli sumerici.
L’approccio etimologico non mi ha consentito di capire se tale monumento abbia mai ricevuto dai Sassaresi (o dagli altri Sardi) un nome specifico. È forza chiamarlo come i Mesopotamici chiamarono la propria tipologia: bab. ziqqurratu(m), ass. siqurruttu ‘torre templare’, traslato: ‘picco di montagna’ < sum. zikum ‘albergo, ricovero’, anche ‘cieli’ + ra ‘cielo, Dio del cielo’ + tu ‘leader’: zikum-ra-tu, col significato di ‘chiesa del Dio sommo celeste’.
Propongo di lasciare questo nome sumerico al monumento sassarese e agli altri da accertare. Faccio la proposta con coscienza, poiché non mi sfugge una strana coincidenza tra ziqquratu e l’it. curato (così fu chiamato il sacerdote cattolico che esercitava la “cura” delle anime). Stando al DELI, il termine fu usato la prima volta da Paolo Sarpi nel 1619, ossia quattro secoli fa. Il termine è quasi assente nell’italiano corrente, e rimase relegato precipuamente al territorio dove il Sarpi maturò la propria formazione culturale. È un termine rurale, e appartiene alle numerose migliaia di lemmi italici che sortirono di colpo e misteriosamente dal magma dei dialetti rurali, grazie a qualche scrittore nato nel luogo dove il vocabolo era “intrappolato” da millenni.
Sostenere sbrigativamente – come purtroppo fanno i filologi romanzi – che curato derivi dal lat. cura, è un azzardo: sarebbe il primo vocabolo italico ad esprimere un nome d’azione con un passivo (contraddictio in terminis). Sarebbe alquanto più congruo (anche se non troppo) sostenere che derivi dall’attivo lat. curātor ‘curatore, amministratore, direttore, sovrintendente’ (nomen actionis). Ma intuisco che DELI non lo ha proposto perché è difficile accettare che un sacerdote, un uomo dedito al sacro e al trascendente, fosse così chiamato dal suo popolo. Cadremmo anche qui in una contraddictio in terminis.
La terza opzione, l’unica valida, porta inevitabilmente al cuore di quel magma inesplorato che è stato finora il sistema dialettale italico (il quale oramai è, purtroppo, in via di estinzione). Esso, se fosse stato studiato dai semitisti anziché dai latinisti, avrebbe dato per tempo un quadro più corretto delle culture italiche prelatine. E si sarebbe capito che curato non è altro che una retroformazione di ziqquratu, che fu probabilmente inteso nel Medioevo come zio curato, ossia ‘signor curato’, cioè ‘dominus curātor’. Il termine zio in tutto il territorio italico, e pure in Sardegna, indicò in origine una persona cui si deve alto rispetto, non solo per l’età. Secondo DELI la sua base è il gr. théios, letteralmente ‘divino’. Strana origine di un lemma apparso con Isidoro di Siviglia (VI-VII sec.) ed espanso in Italia partendo dal meridione, dove riaffiorò in epoca medievale dopo millenni d’uso dialettale.
Invece io sostengo che il termine è d’origine sumera. Il sum. zi significa ‘vita’, e non è un caso che Ziu-Sudra, il Noè sumero, sia interpretato come ‘(colui che) vide la vita’. Non discuto le interpretazioni dei sumerologi, ma penso che il sardo e italico tzìu, zio vada scomposto nel sum. zi-u, di cui il primo membro indica la ‘vita’, mentre u può indicare a un tempo il ‘grano’ (= ‘grano della vita’, poiché ha generato “polloni” giovani), o ‘pastore’ (= ‘pastore della vita’, per l’esperienza), o ‘cardine superiore d’una porta’ (= ‘sostegno della vita’), o ‘totalità’ (= ‘totalità della vita’), o ‘albero’ (= ‘albero della vita’, perché ha dato frutti).
Tornando a ziqquratu < sum. zikum-ra-tu, ‘chiesa del Dio sommo celeste’, interpretato oramai nel Medioevo italico come zio-curato (paronomasia), pare ovvio che il nuovo prete cristiano dal popolo analfabeta, ch’era poco cristianizzato e ancora intriso di arcaica cultura semitica, fu chiamato curātus con una normale retroformazione che s’adattò in qualche modo alla nuova realtà religiosa.
Anche l’etimo del toponimo sassarese Monti d’Accoddi non è stato mai indagato. Oggi è interpretato come Accoḍḍi preceduto da un supposto genitivale de. Comunque, in origine il termine dovette essere un composto sardiano basato sull’akk. dâku(m) ‘to kill’, ‘abbattere, diroccare’ + ullû(m) ‘esaltato’ (riferito a un dio o a un luogo sacro). Può interpretarsi quindi come ‘Monte sacro diroccato’, nome creato dai residenti nel Medioevo quando non era più considerato come altare. Ma sembra più congruo vedere in questo ziqqurat uno degli originari luoghi sacri dove, alla presenza del popolo in adunanza, venivano sacrificate agli dèi le vittime umane. In tal caso Monti Daccoḍḍi significò (ancora in epoca medievale) ‘Altura dei sacrifici umani, delle uccisioni’.
Ma forse pure Monti è di per sé una paronomasia, che in questo caso nasconderebbe l’ugar. Motu ‘Dio della morte’ < akk. mūtu(m) ‘Morte’ (demone o dio) + akk. dâku(m) ‘uccidere persone’ + uddu ‘pira, catasta di legna’: mūtu-dâk-uddu, col significato di ‘(altare) dove si bruciano le vittime sacrificali’. Insomma, l’interpretazione etimologica lascia intravvedere una destinazione cruenta dell’edificio.
– SOS NURAGHES, IS NURAGUS
Ho scritto in varie parti che l’ipotesi (la certezza) – ancora oggi tenacemente manifestata da molti – che i nuraghi fossero fortezze, non ha alcuna base logica né culturale. I nuraghi in Sardegna sono (furono) almeno diecimila (secondo certi calcoli potrebbero essere stati addirittura 30.000), e come strumenti difensivi sarebbero un numero enorme. Accettarli come fortezze significa che i pochissimi Sardi dell’epoca (gli storici e gli antropologi suppongono non più di 300.000 anime) avessero costruito una torre marziale ogni 30 persone. Il dato è incredibile, perchè dobbiamo accettare l’assurdo che i Sardi – a gruppetti di 30 – si facessero l’un l’altro una guerra permanente. La quale sarebbe illogica, perchè in breve tempo i Sardi sarebbero dovuti sparire, mentre invece non sparirono. A questo assurdo si sommerebbe l’altro, che per erigere un nuraghe non bastano 30 persone (delle quali peraltro metà erano bambini, l’altra metà va spartita tra uomini e donne; e poichè le donne avevano altro da fare, ad erigere il nuraghe avrebbero lavorato non più di 4-5 uomini: altri due uomini, e siamo a 7, li collochiamo tra i senes, che per definizione sono poco validi e nella società arcaica avevano altri compiti).
Presento un altro assurdo: ogni nuraghe copre mediamente un territorio non più ampio di 3 chilometri quadrati, che sarebbe lo spazio vitale di ogni tribù di 30 persone… pari a sole tre-cinque famiglie! Un assurdo affastellamento di torri difensive.
Infine va fatto un ragionamento decisivo: per annientare la “tribù” avversaria non c’era bisogno di affrontarla in campo aperto e nemmeno di assediare la torre; bastava aspettare il vento, attendere che la “tribù” entrasse a dormire nel proprio castello, accendere un falò a ridosso del nuraghe, ucciderli tutti per asfissìa.
I nuraghi non furono castelli ma altari, esclusi ovviamente i nuraghi-reggie (quale S.Antine, Arrubiu ecc.) ch’erano a un tempo reggie-altari-castelli. Il popolo Shardana non fu mai in guerra intestina d’annientamento, ma fortemente coeso. Riuscire a costruire una pletora incredibile di altari d’una perfezione architettonica assoluta presuppone una fortissima unità di popolo, e pure la gestibilità collettiva di pochi ingegneri messi in grado di circolare liberamente da un cantone all’altro. Gli Shardana erano così pii, che s’aiutarono l’un l’altro ad erigere queste prodigiose torri, che da quasi quattromila anni sfidano il vento e l’insipienza degli interpreti.
Alla maggioranza dei nurághes è associato in toponomastica un aggettivo, un epiteto, un nome identificativo. È normale, perché anche i nuraghes funsero (e ancora fungono, assieme a migliaia di altre eminenze caratteristiche) da coordinate territoriali, le quali consentono al pastore, al cacciatore, all’utilizzatore del territorio, di orientarsi e vagare in sicurezza. Talora gli epiteti, nomi o aggettivi dei nuraghes sono talmente peculiari che s’intuisce d’avere a disposizione dei relitti linguistici capaci di rivelare (grazie all’etimologia) la funzione del manufatto nell’alta antichità. Da questi relitti potremmo poi tentare di estendere la nostra interpretazione ad altri nuraghes che pur avendo epiteti “modernizzati” (paronomasie) sembrano celare l’antico nome.
Però in ciò dobbiamo essere cauti. Ad oggi gl’indizi linguistici che possiamo addurre con sicurezza (beninteso, limitandoci ai nuraghes) sono soltanto tre, quindi pochi. (Non intendo rimpolpare la magra terna indiziale col gran numero di “prove” linguistiche addotte da Dolores Turchi per i nuraghi aventi per nome santu Antòni, sant’Andrìa, santu Liséi e ad altri, “prove” che rifiuto per ragioni di metodo). Eppure i miei tre indizi, che non consentono da soli un’interpretazione sicura, tantomeno l’estensione dell’interpretazione, tuttavia ricevono soccorso da tutta una serie di altri dati relativi all’altissimo numero delle torri nuragiche, alla loro immensa distribuzione geografica ma principalmente alla determinante etimologia del lemma nurághe o nurágu. Sono questi dati messi assieme che abilitano a stabilire con sicurezza che i nuraghes furono eretti per l’adorazione dell’aspetto più tangibile di Dio, che è la sfera del Sole.
Certo, di alcuni nuraghes sono sopravvissuti altri nomi o epiteti, da cui s’intuisce che gl’indigeni con tale formula vollero rappresentare una determinata idea-guida (idea-programma), che perscindeva dalla epifania più degna (il Sole) cui normalmente l’uomo si riferiva. Così, il nuraghe Scurìu presso S.Giorgio di Jerzu, avente la base etimologica nell’ass.-bab. kurību (uno spirito etereo) + prefisso rafforzativo s-, indica che in quel nuraghe s’adorava un essere etereo. Tenuto conto dell’alta antichità di questo vocabolo, non si può certo credere che kurību fosse un “folletto” o simili; invece – in forza dell’opzione materialistica cui dobbiamo attenerci nell’esame dei vocaboli arcaici – lo “spirito etereo” potè essere soltanto riferibile all’unica Entità Assoluta, ossia direttamente a Dio, la cui spiritualità si esprimeva pur sempre attraverso l’epifania eterea della Luce e del Sole che la emana. Scuríu è il mio primo indizio.
Per tutto questo libro ho ampiamente discusso e dimostrato che il Dio Unico precristiano in Sardegna s’esprimeva mediante alcune epifanie caratteristiche, che sono: la Luna, il Sole, Adone (ipostasi della Natura in generale), il Palo o Phallos, l’Acqua, e pure mediante tre animali caratteristici: il Gatto, il Maiale, il Toro.
E allora andiamo al secondo indizio linguistico. Di un nuraghe è sopravvissuto il nome proprio, che è Adòni (Villanovatùlo). Un tempo quel nuraghe appartenne al villaggio di Gadòni (pronunciato localmente Adòni, come il nuraghe). Con tutta evidenza tale nome divino, che noi conosciamo grazie al Dio della Natura siro-fenicio (poi greco), non autorizza a ritenere che nel territorio di Gadòni si fosse a suo tempo insediata una enclave di Fenici. No, anche lì, come dovunque in Sardegna, ci furono sempre e soltanto Sardi. Evidentemente la tribù dominante quel vasto territorio volle intestare al Dio Supremo, nella sua epifania di Dio della Natura, non solo il proprio villaggio ma pure il proprio nuraghe, in quanto anche per loro il nuraghe non era altro che una forma fallica (il phallos, su palu), immagine della sacra virga, ossia l’esatta sagoma del membro col quale il Dio Supremo “ara” la Terra, “ara” ogni essere femminile, e rigenera l’intero Creato. Stando a quanto riferì 180 anni fa Alberto della Marmora, sopra la celebre Perda Iliàna ci stava un nuraghe: tenuto conto che la caratteristica rupe fusiforme è il più grande e più elevato Phallos sacro dell’isola, il nuraghe non poteva avere altra funzione se non di prolungare ulteriormente l’ascesa verso il cielo della sacra virga, la quale esprime il Dio Altissimo nella sua epifania fallica.
La veridicità di quanto ho asserito sta nel terzo indizio (che oramai possiamo considerare prova), ed è il nuragi ‘e Déus (Gésturi). Tale nuraghe è intestato direttamente al Dio Supremo. Quindi è ovvio che – salvo il fatto che nella sommità dei nuraghes s’accendeva il fuoco perenne in onore dellla epifania solare – fu sempre il Dio Unico ad essere onorato mediante le torri nuragiche.
Che il culto solare fosse rivolto ad una delle varie epifanie del Dio Unico, lo sappiamo peraltro da varie attestazioni mediterranee e mesopotamiche. Ad esempio, nell’inno sumerico a Zababa di Kish (dio degli uragani), si cita il fuoco sacro e dunque il culto solare:
O dimora costruita nell’abbondanza, attraverso la quale Kish leva in alto il capo, / che fa vivere l’umanità sicuramente, il tuo grande fondamento non è possibile distruggerlo. / Il tuo alzato è un turbine che penetra profondamente, che gonfia il cielo pienamente, / il tuo interno è adornato con armi, le armi degli dei, […] / la tua destra schiaccia la terra nemica, la tua sinistra stermina i malvagi. / Il tuo fastigio è un’alta luce, un grande turbine, che tocca la terra, che è avvolto di splendore potente e terribile; / o Edubba, il tuo re, l’eroe Zababa, ha fondato la sua dimora nel tuo territorio, ha stabilito la residenza sul tuo luogo elevato. (Edubba è il nome del tempio dedicato al dio Zababa).
Altra divinità assommante in sé varie epifanie, ivi compresa la solarità, fu il dio indo-iranico Mitra. A cui potremmo affiancarne tanti altri. Anticamente c’era l’uso di adorare le varie divinità anzitutto sub specie Sōlis, ma non solo. Ad esempio, gli ziqqurat, che erano dedicati a vari déi (dio lunare Nanna ad Ur, dea Inanna a Uruk, dio della tempesta Zababa a Kish, ecc.) erano pur sempre dei templi uranici, quindi solari. A Ugarit si saliva sulle torri per pregare (presso le singole famiglie si saliva sui tetti delle case). Quella di Ugarit è un’altra prova indiretta che i nuraghes sardi erano altari: altari solari.
La tendenza ad abolire o attenuare i confini tra le varie divinità fu anche degli Egizi, senza che i fedeli avvertissero delle contraddizioni perché si trattava pur sempre di epifanie del Dio Unico. In realtà siamo noi ad assiderci in una specola inadatta, pregiudizialmente corrotta dal concetto del pantheon, che più su ho condannato come inadatto a capire le culture antiche. I fedeli sapevano esattamente come adorare il proprio Dio. Di particolare importanza tra gli Egizi fu il processo di identificazione nel campo delle divinità solari. Dopo l’estinzione della IV dinastia erano saliti al trono i discendenti di una famiglia di Eliopoli, che adoravano esplicitamente il Sole, e ciascuno si fece costruire nel proprio palazzo il tempio di Ra a imitazione del tempio del benben di Eliopoli. Le altre città assimilarono lentamente Ra al proprio Dio, ed ecco la ragione dell’apparire di nomi divini aventi come secondo elemento Ra (Sobek-Ra, Montu-Ra…). Il faraone si considerava figlio di Ra, “immagine vivente di Ra sulla terra”, in tutto identico a suo padre e ad Horo, l’altro dio solare.
Ora possiamo tornare in Sardegna, ai nostri nuraghes, per apprezzarne ulteriormente la funzione mediante l’etimologia, la quale in questo caso ha una forza dirimente, direi dirompente. In accadico per nuraghe (metasi: nuḫar) s’intende un high temple, un tempio situato in luogo elevato, eretto direttamente sopra una terrazza basale. Tipico high temple è lo ziqqurat, tempio uranico, sopra il quale in origine veniva eretta una cappella che assomiglia in modo sorprendente ai nuraghes.
In Sardegna, come si nota, il lemma babilonese è pronunciato all’inverso: nuḫar > nuraḫ > nuragh–e, nurágu. Il termine babilonese, così come lo recepiamo nei dizionari, ai suoi tempi era già un lemma rigido, cristallizzato, dal quale occorre enucleare le basi compositive. Troviamo queste nella lingua sumerica (dalla quale in gran parte quella accadico-babilonese deriva). Esse hanno la seguente agglutinazione: nu ‘creatore’, ‘sperma (divino)’ + ra ‘puro’, ‘ fulgido’, ‘splendente’ (v. egizio Ra ‘Sole che splende’) + gu ‘forza’, ‘complesso’, ‘interezza (di edificio)’. Il composto nu-ra-gu significò quindi ‘complesso edilizio di Dio Fulgido Creatore’, ‘Chiesa del Fulgido Creatore’. Era, insomma, l’edificio sacro eretto a magnificare il Sommo Dio dell’Universo nella sua epifania solare. (…)
– I POZZI SACRI
Indubbiamente la Sardegna si è ritagliata un posto preminente e privilegiato, nel Mediterraneo e nel mondo intero, per il culto delle acque. Vi si trovano fonti sacre o pozzi sacri un po’ dappertutto, alcuni d’una perfezione architettonica che lascia ammirati, come quello di Orùne, di Santa Cristina, di Pérfugas, di Balláo, di Tattínu.
Che tali monumenti sotterranei o subaerei, scavati nella roccia, fossero sacri, non lo attesta soltanto la singolare architettura ma pure il ritrovamento, in apposite fovee, di ex voto, quale il meraviglioso bronzetto di Nule (una specie di misterioso “centauro”).
Il culto delle sorgenti appartenne pure agli Hittiti, poi ai successori Luvi (prima che questi fossero assorbiti dagli Assiri). Ma riguardò anche i Celti dell’intera area gallica. In Italia riguardò i Peligni e gli Umbri (col dio Šerfio, citato nelle Tabulae Eugubinae, cui erano addette pure delle sacerdotesse). Nell’antica Persia il tempio di Kangavar, costruito da Artaserse II in onore della dea delle acque Ardevisur Anaḥita, ricalca la struttura dei palazzi achemenidi.
Presso i Sumeri e gli Accadi, a Dilmun (ritenuto il “Giardino dell’Eden” per la quantità delle acque sorgive), si adorava l’importantissimo dio Enki o Ea, signore delle acque sotterranee. Non parlo poi del mito ellenico delle Naiadi, ch’erano le ninfe delle acque dolci.
In Sardegna il culto delle acque, estremamente importante perché esse guarivano materialmente e rapidamente molti traumi, varie malattie della pelle e qualche malattia interna tramite immersione o mediante ingestione, dovette essere quello più sentito e partecipato, perchè dava risultati concreti, tangibili, oggettivi, generalizzati, talvolta miracolosi. Ecco perché a Romanzésu (Bitti) c’è una grande piscina gradonata ad anfiteatro, servita dal propinquo pozzo sacro, dove masse di popolo devoto andavano a immergersi, a battezzarsi, a fare festa a Mamùsa, la dèa delle acque.
Il tempio delle acque in Sardegna si chiamava cubéddu o, secondo le zone, cabella, cambella, cabéccia. La parte più interna, il sancta sanctorum, cioè il pozzo dell’immersione o fonte battesimale, era detta mamòne o, secondo le zone, maimòne. La sacerdotessa addetta al culto era chiamata cumposta. Non è da tacere al riguardo il Dio delle guarigioni (anch’egli collegato – guarda caso – alle acque). Epifania maschile della stessa dea Mamùsa, egli è Šálimu, Šálamu; per intenderci, questi è lo stesso Dio della salute in virtù del quale cominciò ad essere frequentato il celeberrimo sito cananeo che poi divenne Gerusalemme. Yerûšālaym infatti ebbe origine dal dio Šalimu (Giosuè 10,1). Sotto la rocca sulla quale poi sorse Gerusalemme alle origini c’era una fonte poderosa, una risorgiva che creava un laghetto, in seguito scavato e ampliato come serbatoio idrico della città. Sembra ovvio che in origine la gente andasse a quella risorgiva non solo per attingere acqua ma anche per immergersi e curare le malattie.
Il toponimo Yerûšālaym è noto nelle sue varie forme secondo i popoli. Abbiamo ebr. יְרוּשָׁלַיׅם , gr. Ιερουσαλημ, ʿΙεροσόλυμα, lat. Jerusalem, assiro Urišläm, akk. Urusalim, Urusalimmu. Per l’etimologia i semitisti indicano ebr. יְרוּ* (*Iěru) ‘fondazione, insediamento di città’ da sum. iri ‘città’ + Šalam ( שׁלם ) ‘dio della salute’, col significato di ‘città di Šalam’.
Ogni popolo ha la sua Lourdes: i Cananei ebbero la loro. La Chiesa cristiana, conscia del travolgente e tenacissimo impatto di queste numerosissime fonti e pozzi nella coscienza religiosa dei Sardi, mirò a seppellirli immantinente sotto la massicciata delle proprie chiese. Quando l’operazione non le fu possibile per le forti opposizioni, racchiuse la fonte all’interno dei rinnovati compendi sacri (S.Salvatore di Cabras, Madonna dei Martiri a Fonni, Santa Maria di Uta…), dove le immersioni furono tollerate ma nell’ottica della venerazione dei Santi, i nuovi elargitori del miracolo.
La Sardegna collinare o montana aveva molte fonti purissime (ancora le ha), anche perché la maggior parte del territorio, peraltro poco o punto antropizzato, ha rocce cristalline (vulcaniche, plutoniche) o metamorfiche. Buona parte della “cintura” vulcanica della Sardegna (la cosiddetta Alvernia Sarda, ma non solo essa) ebbe parecchie fonti calde, ma stranamente quelle ancora oggi attive, a calore intenso, scaturiscono da rocce granitiche (Casteldoria, Benetutti) o comunque paleozoiche (Villasor, Sardara). Nella vera e propria “Alvernia” abbiamo Fordongiánus, oltre a Santa Lucia (ormai a temperatura contenuta), ed ai suoi bordi c’è San Martino (andesiti). Le fonti fredde rituali non si contano.
Frotte di malati accorrevano alle cure, sia a quelle calde sia a quelle fredde, e i residui archeologici (come a Benetutti, principalmente a Fordongiánus) testimoniano la frequentazione, che fu incrementata in epoca romana con l’erezione di terme. Ma le terme erano già un fenomeno nuragico, com’è testimoniato dalle belle (per quanto piccole) terme di Sedda sos Carros, in pieno Supramonte di Olièna, un’area carsica priva d’acqua, cui non bastava il momentaneo apporto delle rare piogge, peraltro disponibili solo d’inverno. Nonostante gli studi di Fadda, Lo Schiavo, Salis, resta un mistero l’approvvigionamento del sito, che ad ogni buon conto era sacro, come testimoniano l’architettura civettuola, i numerosi doccioni a protome caprina o muflonica ed i numerosi conci in basalto portati dai golléis lontani 10 km.
Considerata la sopravvivenza (la riesumazione) dei tanti epiteti riservati a siti specifici, ai sacerdoti, alla Dea dell’acqua (che poi era la stessa epifania della Dea Mater Universalis), dobbiamo ammettere che il culto fosse capillare e d’estrema importanza. Non possiamo escludere che alcune acque della Sardegna fossero “a luce bianca”. Mamùsa soprintendeva anche e principalmente al miracolo indotto dalle acque “a luce bianca”, e non è un caso che il suo nome venerando sia stato perpetuato da un cognome. Ogni popolo ebbe la propria dèa, il cui nome mutò secondo l’epoca, ed oggi i miracoli dell’acqua sono appannaggio di Santa Maria, la Madonna dei Cristiani.
(….)
MAIMÒNE cognome. È il cognome di vari ebrei, mercanti e di altra professione, approdati a Cagliari e ad Alghero nel 1365. Ma in Sardegna il termine è già attestato da millenni. È ricostruibile filologicamente dal nome di un demone idrologico del folklore locale, che porta appunto il nome di Maimòne, e deriva dal vocabolo ebraico maim ‘acqua’, akk. māmū ‘acqua’. Il secondo membro del composto maim-òne ha la base nel sum. unu (la parte più sacra di un tempio), e pertanto il significato sintetico di Maimòne fu, almeno in origine, ‘sancta sanctorum del tempio delle acque’ con riferimento alla fonte sacra della Sardegna nuragica.
MAMÓNE noto sito in agro di Bitti dove insiste un ergastolo. Vedi anche Mammòne presso il lago di Cucchinadorza.
In italiano Maimòne è un nome attribuito in passato ad alcune scimmie (dall’arabo maimun ‘scimmia’), poi diventato nome fantastico e terribile (Gatto Mammòne). È strano, ma non troppo, che il Gatto Mammone abbia lo stesso nome ebraico di Maymo, notissimo cognome di ebrei arrivati in Sardegna dalla Spagna dal 1365 in poi. Questo cognome è diffuso in tutta Italia con varie forme (es. Mimùn). In (Gatto) Mammòne si nota una chiara derisione anti-ebraica, nata ovviamente nel Medioevo dalla commistione del lemma arabo col cognome Maymo.
In campidanese è usato nel sintagma bentu maimòni = ‘turbine di vento’. Ma questo ha un etimo differente (vedi appresso).
Un accrescitivo di Maimòne (sentito come tale, ma più che altro si tratta d’una commistione abusiva) è mammutthòne, mummuttòne, mamussòne, malmuntòne, mamuntòmo che in tutta la Sardegna indica lo spauracchio dei bambini ed anche il fantoccio usato come spaventapasseri. Identico è il nome riservato alla maschera carnascialesca di Mamoiàda.
In Sardegna Maimòni è principalmente un demone delle piogge, invocato ancora a Ghilarza, il cui nome deriva dall’ebraico maim ‘acqua’, akk. māmū ‘acque’ + sum. unu (la parte più sacra di un tempio); pertanto il significato sintetico di Mamòne fu, almeno in origine, ‘sancta sanctorum del tempio delle acque’ con riferimento alle fonti sacre della Sardegna nuragica. Con ciò siamo giunti pure al significato del toponimo Mamòne, che è semplificazione di Maimòne, così chiamato a causa delle acque sorgive scorrenti nell’altopiano di Bitti, che dànno origine al fiume Tirso, il più lungo dell’isola.
Va notato infine che la base etimologica di (béntu) maimòni è l’akk. mammû(m), mummu ‘frost, ice, gelo, ghiaccio’, con riferimento al fatto che tale vento soffia in pieno inverno. Il termine accadico subì a suo tempo l’accrescitivo sardiano -òni e la commistione fonica con maimòne e semantica con Mamòne. Vedi comunque la lunga discussione al lemma gattu.
MAMÙSA cognome che fu un termine sacro sardiano riferito alla ‘Dea delle Acque’, dall’akk. māmū ‘acque’ + ša ‘quella di’, ‘quella che’, esattamente ‘Quella delle acque’. (…)”
Fonte: “Monoteismo Precristiano in Sardegna”, Salvatore Dedola