Approfondimenti
LA COMUNANZA LINGUISTICA PREISTORICA
“In ognuno dei miei libri di etimologie pubblicati nella ‘Collana Semitica’ ho espresso con chiarezza il metodo d’indagine etimologica. Io mi avvalgo di 17 dizionari (e relative grammatiche) relativi alle lingue mediterranee antiche e medievali, lingue apparse alla storia fin dall’origine della civiltà. La mia ricerca parte dal lemma attuale e discende, tra confronti lessicali e morfemici, fino al più arcaico lemma che possa credibilmente confrontarsi con quello sardo di partenza. Esamino pertanto i dizionari (e le grammatiche) delle lingue italiana, spagnola, catalana, antico-italiana, bizantina, latina, greca, egizia, araba, ebraica, fenicia, ugaritica, aramaica, assira, babilonese, accadica, sumerica. Inoltre, per non lasciare nulla d’intentato, consulto pure il dizionario hittito e quello sanscrito. Ovviamente mi riserbo l’opportunità di consultare – secondo i bisogni – i dizionari delle lingue celtiche, di quella basca e, perché no, della lingua gotica nonchè delle lingue germaniche. Oltre 23 dizionari.
Occorre risulti chiaro che l’uso metodico di questi dizionari e grammatiche è il fondamento di ogni lavoro etimologico sulla lingua sarda. Respingo quindi, perchè ametodica, anzi provocatoria, la pretesa di quanti si convincono che la lingua sarda derivi da quella latina (o dalla lingua basca), e si degnano di consultare soltanto quel dizionario, salvo privilegiare le lingue romanze cui sono affezionati, ossia il catalano, lo spagnolo, l’italiano, oppure (assurdo degli assurdi) si dilettano di tradurre da-sardo-a-sardo o, che è lo stesso, da-sardo-a-italiano.
Il vezzo deplorevole d’abbandonare la prassi scientifica e di cullarsi nella traduzione autoreferenziata, ossia in una traslazione fatta all’interno di una stessa lingua, è un marchio imperdonabile sulla pelle degli etimologisti. Ad esempio, un grecista, nel tradurre il gr. témenos come ‘recinto sacro’, ‘area consacrata’, tende ad accostare il lemma al verbo gr. témnō ‘taglio’, e chiude la questione, senza più mirare alla base arcaica, che invece sta al difuori della lingua greca, ed è il sumerico temen ‘fondazione’ (nel senso di area costruita, delimitata): vedi accadico temennu ‘fondazione’, ‘pietra di fondazione con documento’.
Quanto ai latinisti, la loro indagine (per dirne una) sul sardo déus li porta ad affermare, manco a dirlo, un’origine latina, salvo confrontarlo col gr. Ζεύς (anzi, secondo logiche contorte, con θεός). Non li sfiora l’ipotesi che déus, assieme a Zeús, abbia un’arcaica base nel sum. de ‘creare’ + u ‘totalità, universo’: de-u, col significato originario di ‘Creatore dell’Universo’. Che poi il skr. deva ‘dio’ abbia la stessa radice sumerica, è ulteriore indizio che fu il bacino sumerico a irraggiare il concetto del principio universale, e non certo la parola indoeuropea *dyau (ricostruita!), alla quale si attengono fideisticamente gli studiosi della “scuola indoeuropea”.
A veder bene, la differenza dei metodi è palmare. Il loro metodo è identico a quello di un pigro archeologo che scava un monumento per pochi metri, lasciando sotterra il 90% dell’alzata muraria compresi tutti i manufatti che si trovano alla base della stessa alzata. È come che Schliemann avesse scavato Troia soltanto al primo livello, anziché fino al nono. Io, scavando i primi livelli della lingua sarda attuale, l’ho trovata per il 40% riferita a lemmi italiani-spagnoli-catalani-latini. Un tempo traducevo proprio così, basandomi su quelle lingue! Oggi mi sentirei ridicolo e incompetente se mi fermassi a tali livelli. Ritenendo tale procedura parziale (pertanto non-scientifica), oggi proseguo lo scavo fino alla ‘base rocciosa’, reperendo il restante 60%, il quale, guarda caso, è riferito ai dizionari sumero-semitici, addirittura risulta ‘consanguineo’ ai dizionari sumero-semitici.
Ecco perché sostengo che lo ‘zoccolo duro’ del lessico sardo attuale affonda tra le lingue del bacino semitico. Ne consegue, scientificamente, che le basi arcaiche e antiche della lingua sarda sono, appunto,sumero- semitiche. E poiché la Sardegna non subì mai alcuna invasione né colonizzzazione dai popoli della Mezzaluna Fertile, va da sé che nei tempi pre-imperiali, pre-cristiani, la base delle lingue mediterranee (specialmente la base della lingua sarda) era ‘sumero-semitica’ ab origine: era ‘sumero-semitica’ tout court, ma, si badi, nomine tantum, nel senso che apparteneva a una comunanza linguistica preistorica (Prima e Seconda Cenosi) che abbracciò l’intero Mediterraneo, e che io oggi chiamo “sumero-semitica” soltanto perché, dopo millenni in cui sono rimaste sepolte, certe ‘banche-dati’ lessicali e certi testi scritti sono riapparsi alla luce soltanto nei territori che noi oggi chiamiamo ‘sumero-semitici’. Se a quei tempi pure i Sardi avessero scritto delle tavolette d’argilla, sarebbe stato più chiaro che pure in Sardegna si parlava la medesima lingua. Ma non è detto che prima o poi qualcosa oggi sepolto sia restituito alla Sardegna.
È chiaro che l’uso costante dei dizionari da me citati (fidi compagni di un etimologista serio) non dispensa dalla preparazione linguistica di base e dal talento: un metodo serio (quello qui accennato), la cui assenza ha condotto a un approccio abissalmente differente, facendo trincerare i filologi romanzi nella dogmatica affermazione che la lingua sarda deriva esclusivamente dalla lingua latina (o dalla lingua basca…). Di questa assurda limitatezza e distorsione del metodo risponderanno davanti alla storia della scienza.
(…)
Ho detto varie volte, e lo ripeto, che la chiave per comprendere il problema della conservazione dell’antica lingua preromana si trova proprio nella conquista delle città e nella netta frattura che nella storia del mondo si è sempre creata tra città e campagna. Nella storia della lingua sarda dobbiamo inserire, al riguardo, dei parametri senza i quali non riusciremo mai a comprendere tanti problemi dell’isola. Il primo parametro è che i Romani, sbarcando, s’impossessarono delle città. S’impossessarono di Karallu (Karalis < Karalli tolemaica), insediandovi l’armata, l’amministrazione, le strutture commerciali, i mediatori del commercio. Altrove, nell’isola, crearono dei punti fermi in funzione anti-Barbaricina, quali gli avamposti puramente latini di Forum Traiani e Sorabile. Ma dopo 150 anni essi avevano realizzato che pure il Capo di Sopra aveva bisogno di un saldo presidio. Di qui la fondazione della colonia romana di Turris Lybissonis, che rimase per secoli puramente latina. Come si vede, ai Romani bastarono pochi gangli di residenze latine in purezza, per governare l’intera isola. Anche Tharros e Nora dovettero diventare romane in purezza, con l’ovvio corollario che gli indigeni che le avevano abitate furono certamente scacciati.
Il fenomeno di creare o di tenere in pugno delle città dominanti, abitate esclusivamente da elementi coesi, contrapposti ai restanti residenti sparsi per le campagne o nei villaggi, fu un’esigenza pure catalana: essi scacciarono i Pisani ed i Sardi dalla cinta fortificata del Castello, e scacciarono i Sardi dalla cinta fortificata di Alghero, per l’esigenza di padroneggiare con elementi puri almeno due città, dalle quali poter dominare il Capo di Sotto e quello di Sopra.
Va da sé che la situazione geografica preesistente ha pure giocato un ruolo peculiare, determinando delle eccezioni. Ad esempio, la città di Sàssari non divenne mai catalana, né aragonese, e la stretta vicinanza di Alghero fu per Sassari una spina nel fianco che durò lunghi secoli. Giunse a tanto l’odio anti-catalano dei Sassaresi, ch’essi chiamarono catalani (pronuncia caḍḍaráni) persino degli esseri immondi come le blatte. Ma non fu soltanto l’odio anti-algherese a rinfocolare le antipatie dei Sassaresi. Un odio maggiore fu covato per Cágliari, la capitale che governava mediante tasse ed impiccagioni, e che con zelo mandava a Sassari gli sbirri a domare le intemperanze dei nobili locali (non fu un caso se le montagne di Balàscia e della Gallùra si riempirono di banditi d’estrazione villana frammisti a banditi di stirpe nobiliare). Sotto forme popolaresche e pittoresche, l’odio anti-cagliaritano cova ancora oggi tra la plebe di Sassari. Ma la ragione non è l’invidia per Cagliari capitale dell’isola (nessuna capitale è mai stata odiata dalle altre città), ma è il ricordo, che dura dal 1324, di un governo nemico che al popolo sardo ha recato lutti, miseria, prevaricazioni feudali. La dimostrazione dell’odio anti-catalano dei Sassaresi sta nel fatto che a Sassari non s’usa quasi una sola parola della Catalogna (lingua parlata correntemente, ancora oggi, nella vicina Alghero), mentre si usa a piene mani l’antico-italico, che in fin dei conti non ha e non ebbe niente di nobile, essendo stato introdotto dalla plebe gallurese per due volte, quando entrò a ripopolare Sassari depopulata dalle grandi pesti. I majorales di Sassari preferirono che il popolo fosse rimpolpato con plebe gallurese (parlante un dialetto popolaresco e campagnolo, quindi avvertito con un certo fastidio, vista l’antica tradizione latina dei Sassaresi), anzichè accettare un travaso dalla vicina Alghero, parlante l’aulica lingua dei Catalani conquistatori. Stanti così i fatti, quali ragioni dovevano esserci perché, tanto per tornare indietro alla lingua latina, essa potesse espandersi liberamente o forzosamente nelle campagne, nelle ville? Le ragioni mancarono sempre, perché i Romani furono visti come occupanti, usurpatori di terre, ladri di grano, sequestratori della flotta, inibitori della navigazione e dei commerci indigeni: quindi come nemici irriducibili; ed il popolo sardo continuò imperterrito a parlare la lingua dei padri, quella a base semitica, ancora oggi conservata nello “zoccolo duro” della parlata paesana.
Peraltro, nel mondo abbiamo avuto varie prove di quanto fosse miope e incongrua la pretesa di un conquistatore di sopraffare persino la lingua del popolo sottomesso. Ad esempio, lasciando da parte la famosa deportazione degli Ebrei a Babilonia (i quali conservarono in purezza la propria lingua), possiamo citare la politica dell’Impero assiro, le cui deportazioni avevano primamente lo scopo dell’unificazione linguistica. All’uopo, gli Assiri deportavano i vinti Cananei verso l’Assiria o verso altre province assire, e all’incontro deportavano gli Assiri o i provinciali parlanti assiro verso Canaan. «Scopo finale era l’assimilazione linguistica, culturale, politica, il più possibile completa, tale da trasformare i vinti in assiri. L’assimilazione completa la conquista, trasformando un regno ribelle e alieno in una nuova provincia del cosmo alle dirette dipendenze del re e del dio di Assur».1
«In questo contesto di rimodellamento demografico e territoriale al servizio degli interessi assiri, e sotto attento controllo di guarnigioni e funzionari assiri, la pratica della “deportazione incrociata”, che coinvolse qualcosa come 4,5 milioni di persone in un arco di tre secoli, svolse un ruolo essenziale. Il racconto biblico della conquista di Samaria narra dapprima la deportazione degli Israeliti:
il re d’Assiria prese Samaria e deportò Israele in Assiria, stabilendoli a Halah, sul Habur fiume di Gozan, e nelle città della Media. (2Re 17:6)
e poco dopo narra l’arrivo dei deportati alieni:
il re d’Assiria fece venire (gente) da Babilonia, da Kuta, da ‘Awwa, da Hamat e da Sefarwayim e li stabilì nelle città della Samaria al posto degli Israeliti. Costoro s’impossessarono di Samaria e si stabilirono nelle sue città. (2Re 17:24)
«Dai testi di Sargon II sappiamo che deportò in Samaria anche degli Arabi:
I Tamudi, Ibadidi, Marsimani, Khayapa, Arabi lontani abitanti del deserto, che non conoscono sorvegliante o funzionario, che a nessun re avevano mai portato tributo, per mandato di Assur mio signore io li abbattei, e il loro resto deportai e insediai in Samaria (ISK, p. 320).»2
Ma l’assimilazione non avvenne mai. Negli stessi passi della Bibbia è scritto che le nuove popolazioni di Samaria finirono per logorarsi e sfinirsi a vicenda. Non per altro, ma perché le guerre di conquista lasciavano delle scie d’odio e di revanche talmente grandi, da condizionare e trattenere per secoli o millenni i singoli popoli entro la propria lingua originaria, l’unico segno identitario salvabile. Il destino di Samaria è confrontabile – ma solo per farne risaltare le differenze di fondo – col destino della città sarda di Alghero. Ad Alghero era stato operato un innesto adamantino, un solo popolo e una sola lingua; ma quel popolo straniero rimase incastonato, “assediato” entro le mura cittadine come elemento spurio in un territorio parlante lingua sarda; e ancora oggi la situazione è rimasta invariata; la lingua catalana dopo 700 anni non ha mai varcato le mura di Alghero. A Samaria invece la questione fu pasticciata dal melting pot creato con la mescolanza di cinque popoli; e l’aggiunta del sesto popolo, gli Arabi parlanti una lingua più vicina a quella ebraica, non potè che esacerbare la situazione e mettere gli uni contro gli altri. Era questo il risultato che volevano gli Assiri? Non credo. Essi volevano mettere certamente gli uni contro gli altri, ma soltanto secondo la filosofia del divide et impera. Invece quel seminare odio a piene mani fu foriero di declino economico.
Così andarono le cose nel Mediterraneo da quando Assiri e Babilonesi (poi Hittiti, Medi e Persiani, e infine Greci e Romani) tentarono di prevalere ed espandersi con la forza delle armi. Soltanto la libertà, la parità, la collaborazione pacifica, la dignità dei liberi commerci può fare integrare i linguaggi. È ciò ch’era accaduto per tanti millenni nel Mediterraneo, prima che gli Assiri e i Babilonesi inventassero la “persuasione” degli impalamenti di massa e quella delle deportazioni.
(…)
La Seconda Grande Cenosi produsse fino ai tempi di Alessandro e di Augusto (e pure molto dopo) una lingua-madre (usata quasi certamente come lingua franca anche dalle bande cosiddette “indoeuropee”), che operò senza contraltari egemonici per varie migliaia di anni. Ad essa appartennero tutti i popoli mediterranei (compresi gli Šardana) prima dell’espansione di Alessandro Magno e prima dell’Impero di Roma, e in larga misura anche dopo. Tutto ciò avvenne a dispetto degli studiosi che ancora credono alla fola di un Impero romano iniziatore della civiltà (con l’ovvio corollario che prima di Roma e prima di Alessandro il mondo occidentale fosse preda della barbarie e non parlasse affatto, o avesse linguaggi non-indagabili per propria intrinseca astrusità).
Occorre sottolineare al riguardo dei fatti noti, che sono i seguenti:
1) Nel II-I sec. a.e.v., oltre un secolo dall’invasione, Cleone sente bisogno di scrivere un testo in greco-latino-punico (colonna bronzea di S.Nicolò Gerréi), per essere certo che i Sardi lo capissero almeno tramite la lingua punica.
2) Duecento anni dopo l’invasione, Cicerone denuncia (Pro Scauro) che la Sardegna non ha nemmeno una città amica del popolo romano. Se le città erano ancora ostili agli invasori, cosa dovremmo dire delle campagne e delle montagne?
3) È famosa l’affermazione di Paolo di Tarso il quale, naufragando nell’isola di Malta, fu salvato dai residenti che parlavano una lingua barbara (ossia né greca né latina). Era una lingua semitica che, tra quelle poche centinaia di marinai e coltivatori, durava in purezza nonostante che Malta fosse diventata romana da centinaia d’anni. I Melitesi si rifiutavano, forse persino inconsciamente, di adottare la lingua di Roma, nonostante che fossero così pochi e così esposti, che per i Romani sarebbe stato facilissimo imporglielo.
4) Un altro episodio è quello del De Magia 98, in cui Apuleio, difendendosi dall’accusa di aver indotto con arti magiche la vedova Pudentilla di Oea (l’attuale Tripoli) a sposarlo, apre uno squarcio impressionante sulla società africana del tempo (siamo nel 159 e.v.). Infatti colloca da una parte Pudentilla, donna ricca e colta, che scrive e parla correntemente non solo la lingua latina ma pure quella greca; dall’altra mette il figlio di questa, Sicinio Pudente, che non solo non sa il greco pur essendo stato allevato nella cultura, ma che addirittura balbetta continuamente nel tentativo di esprimere, durante il processo, qualche frase in latino: non gli riesce per il semplice motivo che ha trascurato lo studio delle lettere latine, preferendo vivere come il resto della popolazione, la quale parla esclusivamente il punico. Dall’affermazione di Apuleio veniamo quindi a sapere che nell’Africa latina, occupata da Roma nel 202 a.e.v. dopo la battaglia di Zama (Naraggara), ancora 360 anni dopo si parlava quasi esclusivamente il punico, nonostante che fosse stata romanizzata al massimo grado. Agostino, cittadino africano, aveva imparato il suo ottimo latino, ma egli era uomo urbanizzato, apparteneva a quella minoranza di cives cui era rivolta in esclusiva la predicazione cristiana, anch’essa espressa in latino.
5) Altra testimonianza: nel VI secolo e.v. i Barbaricìni adoravano ancora ligna et lapides (Lettere di S.Gregorio): solo le città avevano cominciato a recepire il verbo di Gesù, e tuttavia molti cittadini pagavano l’imposta per continuare ad adorare liberamente gli antichi déi. Si badi, erano passati 3 secoli dalla liberalizzazione del cristianesimo, 5 secoli e mezzo dal suo esordio. Qualcuno dovrebbe riflettere sul fatto che i Barbaricini di Ospitone (ossia i ¾ dei Sardi, tutti residenti nell’immenso territorio montano), erano ancora pagani, e a maggior ragione non erano entrati stabilmente in contatto con i predicatori latini. Solo la religione è in grado di operare, con lento processo di secoli, dove non riesce il potere politico. La religione ha bisogno di essere predicata con somma circospezione, poiché i soggetti accettano il nuovo verbo soltanto se viene trasmesso nella lingua materna. Così fece Wulfila nel IV secolo e.v., il quale trascrisse il vangelo greco nella lingua gotica, della quale inventò pure l’alfabeto. Così fecero Cirillo e Metodio, che per evangelizzare la Russia ebbero persino l’esigenza di creare un apposito alfabeto nazionale.
Se questi episodi vengono traslati in un’isola grande ed aspra come la Sardegna, allora l’esempio di Malta, ancor più l’esempio dell’Africa romana, ma pure l’esempio di Ospitone, possono rendere benissimo i processi linguistici che s’instaurano presso un popolo di vinti. La chiave per comprendere il problema si trova proprio nella conquista delle città e nella netta frattura che nella storia del mondo si è sempre creata tra città e campagna.
Beninteso, una religione può attecchire anche rapidamente: basta operare un genocidio (come fece Cortez). I sopravvissuti aderiscono, eccome! Ma i territori montuosi della Sardegna (che sono il 70% dell’isola) non furono mai conquistati con le armi, almeno fino al VI secolo, allorchè l’esempio di Cortez ebbe un luminoso precedente nelle armi bizantine. Ospitone doveva salvare l’esistenza del proprio popolo: aderì al cristianesimo. In compenso la lingua sarda rimase intatta. Perché mai un popolo ostile avrebbe dovuto cancellare la propria lingua a vantaggio di quella dell’invasore, un invasore che peraltro ai tempi di Ospitone cominciava ad esprimersi con la lingua bizantina e non con quella latina?
Soltanto con l’architrave del nuraghe Aidu Entos e con la Tavola di Esterzìli la Sardegna comincia ad avere il primo documento romanizzante. Prima dei Romani – questo è certo – i documenti risultano scritti soltanto in alfabeto fenicio o punico. Col che dobbiamo ammettere che i Sardi cominciarono a scrivere la propria lingua con la grafia (e la lingua) imperante nel I millennio a.e.v. nel bacino centro-occidentale del Mediterraneo: la lingua sardo-fenicia”.
Fonte:
Grammatica della Lingua Sarda Prelatina, Salvatore Dedola
[1.5 Il metodo etimologico valido; 1.6 Città e campagna; 1.7 Le prove della parlata pan-semitica in Sardegna]