Approfondimenti
LA LEGGE DELLA PARONOMASIA

“Le paronomasie sono il fenomeno di gran lunga dominante nella lingua sarda. Ad esempio, il 100% dei cognomi è trattato dai filologi romanzi senza che nessuno s’accorga di stare esaminando una sterminata prateria di paronomasie. Stessa sorte subisce l’enorme maggioranza del vocabolario sardo generico o specialistico, a cominciare beninteso da quasi tutti i lemmi pertinenti alla sacralità, ai pani, alle malattie, alla musica, eccetera. I tentativi di dare un senso a queste parole antiche, ossia di tradurle, generano paretimologie proprio perché si parte dal sentire paronomastico, anziché da una corretta metodologia.
La scoperta di una esorbitante presenza di paronomasie nelle lingue attuali (anche nella lingua sarda) mi ha portato addirittura a formulare la “Legge della paronomasia”, alla quale soggiaciono tutti i popoli che hanno avuto a che fare col vocabolario di altri popoli a loro precedenti. Ma ci soggiaciono pure i popoli che usano ininterrottamente la propria lingua da millenni. L’uno e l’altro esempio toccano il popolo sardo.
Nei dizionari della lingua italiana la paronomasia è registrata esclusivamente come figura retorica (quindi come procedimento volontario), per la quale s’accostano due parole di suono simile o uguale, ma di significato differente. I redattori dei dizionari non avvertono la paronomasia come fenomeno portante nella formazione del linguaggio, e credono sia esclusivamente un gioco voluto, culturale, attuato dal parlante per far risaltare l’opposizione dei significati tramite lo slittamento, il doppio senso, la polisemia, l’equivoco tra due identici simboli espressivi. Gran parte delle battute di spirito, e molte barzellette, sono formulate con paronomasie.1
a. Maestra: “Come si formano i venti?”. Pierino: “Moltiplicando quattro per cinque!”
b. Pierino va dal lattaio a prendere il latte; il lattaio gli chiede: – Lo vuoi intero? Pierino: – No, me ne dia mezzo litro!
c. Due pecore si fissano a lungo. A un certo punto una con aria di sfida dice all’altra: -Beeh?
d. Due cacciatori nella savana vedono il leone avanzare. Uno spara e sbaglia. Il compagno, sentenzioso: ” Cilecca!”. E lui, tremante: “Ma che ci lecca?!… Ci mangia!!”.
Tale procedimento culturale, proprio perché mira alla risata, accosta due parole o sintagmi foneticamente simili o identici (ma dalla semantica diversa) allo scopo di far risaltare l’assurdità dell’accostamento. Nessuno studioso ha invece percepito che, al di fuori della creazione volontaria delle figure retoriche, la paronomasia è una legge subita passivamente da tutti i parlanti.
Occorre prendere atto che la paronomasia è antica quanto la storia delle lingue e del linguaggio, poiché ebbe origine dalle omofonie. Anche nella lingua sumera ci sono parecchie parole che hanno pronuncia identica o molto simigliante, mentre il significato è completamente differente (polisemia). Sono chiamate omòfone dai grammatici moderni, ed i Sumeri, tanto per distinguerle, le scrivevano con grafemi diversi, altrimenti da quanto facciamo noi, che le scriviamo con gli stessi grafemi e le distinguiamo nella concettualizzazione della catena parlata. Così, per esempio, il suono /a/ dei Sumeri significa ‘acqua’, e si scrive con un certo segno; quando significa ‘forza’ si scrive in altra foggia.
Ogni lingua ha dei vocaboli o delle frasi equivoche, il cui enunciato può creare la risata (se l’ambiguità è voluta) o l’imbarazzo (se l’ambiguità è insita nel processo ed è irrimediabile, nonostante le attenzioni del parlante). Un esempio di ambiguità irrimediabile può essere il sintagma sassarese Déu non vo’ a vindicázzi ‘Dio non vuole a vendicarci’, che però impone con forza anche una seconda semantica legata alla stessa catena parlata, espressa nell’enunciato Déu non vo’ a vindì cazzi ‘Dio non vuole a vender cazzi’.
Un esempio simile può ricavarsi dal camp. toccamì ainnántis ‘vai davanti a me’, che un Sardo di altri cantoni linguistici interpreta facilmente come ‘tòccami, palpami davanti’.
Wagner, più divertito che scientificamente coinvolto, nel suo DES elenca il lemma suppa ricordando che nella parte centro-merid. dell’isola significa ‘niente’; Chirco e non b’agatto suppa. Non ni budìa fai suppa. E conclude: «rientra nell’inventario dell’italiano maccheronico la frase, riferita al figlio: Non ne posso fare zuppa: è morto bicchierino = ‘non posso cavarne nulla: è molto birichino’». Certo, qui abbiamo una frase maccheronica, ma è frase autenticamente sarda messa in bocca ad un ignorante che tenta di esprimersi coi corrispettivi fonetici italiani: ne risulta una frase sardo-italiana che sguazza nella paronomasia. Wagner ritiene ignoto l’etimo di suppa. Invece esso ha base nell’ass. ṣuppu ‘decorato, rivestito, ricoperto, placcato’, šūpû ‘rendere splendente, visibile’, semantica riferita al risultato dell’abbellimento di un corpo bruto, una trasformazione da oreficeria, decorazione che migliora un corpo grezzo.
Non mette conto citare centinaia di paronomasie prodotte inconsciamente da un Sardo che tenta di parlare italiano, legate spesso alla scarsa conoscenza dell’italiano, talora a scarso autocontrollo. Effetto dell’ignoranza del registro italiano è, ad es., Scuola Alimentare anziché Scuola Elementare; oppure messaggio al posto di massaggio. Oppure molàre al posto di moràle; per questo esempio porto un’esperienza diretta: Come va, Peppìna, ti vedo giù di morale! Risposta: Eh, c’hai ragione! Il morale mi duole molto, ma ho paura del dentista! L’incomunicabilità è dovuta spesso a differenze culturali. E così, se uno ama l’arte e dice “Caravaggio…”, l’ascoltatore che non abbia fatto studi decenti o non abbia passione per l’arte può intendere benissimo scarafaggio. Questa è la “legge della paronomasia”.
Lo scarso autocontrollo all’interno di un solo registro (in questo caso la lingua italiana) gioca ugualmente brutti scherzi, ed il 27 gennaio 2010, ricorrenza della Memoria della Shoah, mi toccò ascoltare alla Televisione un Capo respiratorio al posto del Capro espiatorio.
La paronomasia infine si presta moltissimo ad ironie sulla lotta politica. Due anni fa i ripetuti appelli del Capo dello Stato italiano affinchè lo scontro tra Maggioranza e Opposizione rimanesse entro i riconosciuti paletti della democrazia, ricevettero la pronta e interessata eco della Maggioranza, che parlò della necessità obiettiva, e della propria volontà, di “placare gli animi”. Ma la replica della Minoranza fu la seguente: che, purtroppo, la Maggioranza ha come unica vocazione quella di “placcare gli animi”, nel senso che delega i singoli caporioni del partito a placcare (termine del rugby, ossia ‘fermare a ogni costo’) le teste più indomite dell’Opposizione.
Lo stesso fenomeno delle omofonie, con codazzo di paronomasie (e relative paretimologie), si presenta, beninteso, in tutte le lingue del mondo, sia che si dòminino due registri linguistici, sia che si spazi all’interno di un solo registro.
ΛΑΓΩΠΟΥΣ. Faccio l’esempio del fitonimo greco λαγώπους, così è detto da Dioscoride 4,17 il ‘piede di lepre’ (Trifolium arvense L.). Il vocabolo già da allora risulta essere una paronomasia, la cui base etimologica sta nell’akk. laḫu ‘young shoot’ + pû(m) ‘pula, loppa, foraggio’: laḫu-pûm = ‘erba da foraggio’.
ΔΙΨΑΚΟΣ. Parimenti dìcasi del fitonimo δίψακος (Dioscoride 3,11) ‘cardo dei lanaioli’ (Dipsacus fullonum L., Dipsacus ferox Lois., Dipsacus sylvester L.), che Paulis NPPS 188-189 crede basato su dipsa ‘sete’, trascritto in latino come dipsacos, dipsaca (Plinio N.H. 27,71; Ps.-Apul. 25,15). Il nome greco allude, secondo Paulis, alle lunghe foglie basali opposte ma reciprocamente «fuse a formare una coppa poco profonda attorno al fusto, in cui si raccoglie l’acqua piovana e la rugiada».
Ma gli uccelli non potrebbero bere quell’acqua, se mai il “catino” ne trattenesse; trovano più facile bere nelle pozze o bere le gocce delle foglie dopo la pioggia, senza scomodarsi tra le spine. Se i linguisti attuali avessero la consapevolezza che in epoca greco-classica continuava a vigere la Seconda Cenosi Linguistica, s’accorgerebbero che δίψακος è un termine mediterraneo con base nell’akk. dišpu(m) ‘miele, sciroppo’ + saqqu ‘sacco’ (metatesi: *dips-sacco), col significato complessivo di ‘sacco di miele’; quindi capirebbero che non alla sete pensava il popolo quando forgiò (10.000 anni or sono?) la parola usata pure dai Greci, ma al fatto che i grossi capolini ovoidali del Dipsacus producono ognuno una miriade di fiorellini che vengono bottinati dalle api per produrre un miele raffinatissimo. La quantità del miele bottinato in un Dipsacus è prodigiosa: da qui il termine accadico.
BRUSADORE. Dannose pretese di omologazione sono comuni in ogni persona (e in ogni studioso) che cerca l’autoreferenza etimologica all’interno di una stessa lingua o tra una lingua “minore” e l’altra egemone. Così è per Brusadòre, cognome sardo che Pittau DCS crede significhi ‘bruciatore, incendiario’ da brusiáre ‘bruciare, incendiare’. Ma brusadòre in sardo non esiste, anche perché non avrebbe avuto alcun senso. Gli incendiari nel passato non erano qualificati come terroristi, quali oggi sono (giustamente). Erano persone che ripulivano i pascoli dagli sterpi, operai del debbio che la comunità accettava. Brusadòre è una classica paronomasia, basata sul sum. buru’az (un tipo di uccello) + dur ‘uccello’, col significato di ‘uccello (chiamato) buru’az’: buru’az-dur > sincop. *bruaz-dur > Brusadòre. Doveva essere un uccello sacro.
PILITTA. Un aspetto del genere abbiamo nel cgn Pilitta, Pilìta, che Pittau crede dim. del pers. femm. Pìlima ‘Priama’; in subordine pensa a pilitta ‘cucchiaio di corno dei pastori’ (Perdasdefógu). La prima ipotesi è indimostrabile e improponibile; la seconda inadeguata. Pilitta, Pilìta è termine medico sardiano ed ha base nell’akk. pilû, pillu (un genere di vino) + ittu ‘marchio caratteristico’. Sembra riferirsi alla ‘macchia di vino’ che certi individui si portano fin dalla nascita. Il cgn. Pillittu è una variante di questo.
PORCHEDDINU. L’agg. sd. porcheḍḍínu, puχeḍḍínu ‘bastardo, maccheronico’ è riferito al modo di parlare; sass. itariánu puχeḍḍínu ‘italiano maccheronico’, fabiḍḍà puχeḍḍínu ‘parlare maccheronico’. L’aggettivale evocante i ‘maialetti’ (porcheḍḍus) non è registrato nei dizionari per la sua osticità. Ma la base etimologica di puχeḍḍínu è akk. puḫḫu(m) ‘scambiare, sostituire’ < pūḫu ‘scambio, sostituzione’ + (w)ēdu(m) ‘singolo, solitario; hapax’: stato costrutto pūḫ-ēdu, col significato di ‘singola sostituzione (di vocabolo)’; vedi pure akk. pūḫizzaru ‘scambio equivalente’. Quindi itariánu puχeḍḍínu significa ‘italiano sostitutivo’ ossia parlato sostituendovi qua e là le parole della lingua sarda.
GENTI ARRUBIA. Il “solare” nome génti arrùbia, gente rùbia, zente rùja dato ai ‘fenicotteri’ dal popolo sardo pare cònsono alla natura del pennuto dalle ali rosse: è noto persino agli Spagnoli come flamenco ‘fiammingo, ossia fiammeggiante’! L’accademia nemmeno s’accorge che questo genere di uccelli è l’unico in Sardegna a ricevere l’appellativo génti, zente, che in sardo e in italico significherebbe ‘gente’, ‘popolo, nazione’, ma un tempo indicò pure la ‘razza’ degli animali. Nessun altro uccello al mondo ha un tale appellativo. Ciò insospettisce, o dovrebbe insospettire. Se si capisse che la paronomàsia è una legge del linguaggio universale, questo termine sarebbe stato percepito all’istante come paronomasia. In sumerico enti significa ‘uccello’; in accadico rubû significa ‘re’: quindi enti rubû significò ‘uccello reale’ (ovviamente per la splendida bellezza).
MÙTZIGA SURDA è detta in campidanese una persona dai modi affabili ma traditrice, che mostra buon viso ma colpisce alle spalle, che sta zitta ma parla male dietro alla gente. Il modo di dire, peraltro usitatissimo, non è nemmeno riportato nei dizionari: segno di sottovalutazione o nuncuranza per la locuzione. Traducendo foneticamente avremmo una “pecora con le orecchie tagliate (mùtziga) e sorda”, ma questa interpretazione assurda gronda di paronomasia e di paretimologia. La vera base etimologica è l’akk. muṣiḫḫu ‘clown, buffone, jester’ + surdû ‘falco’, che rende perfettamente la personalità indagata.
ESSE. Di questo lemma con funzione avverbiale Wagner riporta alcune frasi, fra cui andare essi per essi ‘andare vagabondando, senza una meta fissa’. Egli ritiene, con evidente paronomasia, che essi sia un termine video-fono-semantico, dalla lettera S (pronunciata esse in sardo e in italiano). Ma ci sono moltissime altre locuzioni che contraddicono l’ipotesi; come a pili esse ‘coi capelli all’insù, in senso contrario’; G. Pili2 registra nel Sulcis ed in Barbagia la capra dalle corna non omogenee, reciprocamente sghembe, chiamata corrèssa; a Sassari assè tuttu a esse ‘essere smidollato, assai sbilanciato, simile a uno sciancato’; un barrόcciu a esse ‘un carro sgangherato’; ti fozzu la ganna a esse ‘ti deformo l’ano’ nel senso che ‘te le dò di santa ragione’. Tutto ciò avviene nella lingua sarda nonostante che Puddu, uno dei linguisti che registrano lo stato attuale del sardo, riporti delle frasi oramai italianizzate, in cui esse, essi, per essi ha ricevuto, anche qui con evidente paronomasia, il significato di ‘verso, direzione’, da un supposto *(b)e(r)se.
In realtà il lemma è antichissimo e basa l’etimologia sull’akk. ešû(m), ešeum, ašu, išû ‘confuso, aggrovigliato, arruffato’ di filo, capelli, barba, mente; ‘storti’ di occhi.
TRASCHURONI (traχχuròni) sass. ‘brutta cicatrice’, ‘segno di grave violenza o di grave incidente’, ‘segno indelebile lasciato da percosse, cadute, altro’; si ti giómpu ti póngu traschuròni! ‘se t’acciuffo ti lascio dei segni indelebili!’. Oggidì si dice che traschuròni indica la ‘memoria di un danno che non possiamo… trascurare’ (sic). E così non si fa altro che palesare una dipendenza dalla lingua egemone, convinti che l’espressione sia giunta con la lingua italiana in quanto (pregiudiziale ascientifica!) “il dialetto sassarese non è altro che un dialetto antico-italiano”. E non ci rende conto che in Italia un simile sintagma non esiste, un simile lemma non è mai stato inventato. In realtà traschuròni ha base etimologica nell’akk. ṭīru ‘impressione, stampo, impronta, marchio’ + kūru ‘forno, fornace’, sum. kur ‘bruciare’: stato costrutto ṭīr-kūru ‘marchio di fuoco’, poi diventato per metatesi ṭrī-kūru, da cui sass. tras-χur-òni (col suffisso indicante qualcosa di grande). Ci si riferisce ai primi armenti che, già molti millenni fa, venivano marchiati col bollo del proprietario.
PECORA IN CAPPOTTO. Tra le paronomasie mummificate dal tabù della supponenza, nascoste nel pozzo del non-senso, c’è pure la pecora in cappotto. Nessun linguista pone attenzione a tale definizione, oggi espressa in lingua italiana o in porcheḍḍíno (berbèghe “in cappottu”) perchè nel sardo autentico, nella profonda Barbàgia, si è persa persino la sua tradizione fonematica. Ma sono proprio questi casi strani, queste espressioni-minotauro a sfidare un linguista: esse debbono interpellarlo, stimolarlo ad esporsi, a mettersi in gioco.
Pecora in cappotto è una tautologia (pecora-animale in c.), ripetuta senza senso da secoli, ma avente base sum. ḫabum-tu, letteralmente ‘brodo di animale’, ‘zuppa di animale’ (da ḫabum ‘animale, bestia’ + tu ‘zuppa, brodo’). Indicò un animale bollito con ortaggi anzichè trattato al solito modo dei Barbaricini, che è l’infilzamento e l’arrosto.
Il problema delle paronomasie si distorce e si complica ulteriormente quando non si riconosce che molti lemmi di un vocabolario sono in realtà antichi composti. Guarda caso, è proprio nei composti che si verificarono i fenomeni di sandhi che modificano la fonetica delle parti in contatto, rendendo spesso irriconoscibili i due vocaboli originari che concorsero alla fusione reciproca.
Le variazioni fonetiche, le fusioni, le lacerazioni, gli scontri tra parole pronunciate all’interno della catena parlata sono, al presente, assai attivi in certe aree della Sardegna, dove molti vocaboli (non parlo dei toponimi, che fanno la parte del leone) sono continuamente esposti al mutamento fonetico (meglio dire: all’altalena fonetica). Questo ribollire rientra tra i fenomeni di sandhi, i quali nella Sardegna meridionale non riescono mai a quietarsi e disporsi secondo logiche condivise ma, come in un cratere attivo, sfriggono perennemente nel crogiolo di fusione. Qualsiasi linguista può recarsi in certe zone, anzitutto nel profondo Campidàno, nel profondo Sàrrabus, nella profonda Barbágia, per ascoltare parecchi suoni indistinti nella catena parlata, veri e propri “sfarinamenti” delle finali di un vocabolo contro l’iniziale del vocabolo contiguo, cui il parlante affida inconsapevolmente larghe porzioni del proprio inventario fono-semantico. Una spia della difficoltà che il parlante ha nella scelta del giusto fonema in finale di un vocabolo entro la catena parlata, è il fatto ch’egli pronuncia fonemi chiari e distinti per ogni vocabolo, escludendo però la finale del vocabolo stesso, dove i fonemi diventano meno chiari o addirittura incomprensibili. È ovvio che la pronuncia chiara e distinta riguarda i fonemi su cui la certezza è assoluta, mentre i fonemi indistinti sono quelli su cui la certezza vacilla; ma questo vacillare, si badi bene, è condiviso e generalizzato, nel senso che coinvolge l’enorme maggioranza dei parlanti locali: diversamente il parlante non avrebbe interesse a tener vago l’eloquio. Il sandhi esasperato è tipico delle aree citate, al contrario non riguarda il Nuorèse, il Logudòro, la Gallùra.
APEDALI. I casi di sandhi nella lingua sarda toccano ovviamente molte migliaia di vocaboli. Ma oltre ad essi ci sono altri casi non propriamente classificabili nel sandhi, come ad esempio i vocaboli sorretti dalle preposizioni o dagli articoli determinativi, il cui composto rimane molto spesso cristallizzato. Si veda ad es. il caso del camp. avedáli, (Quartu) che ormai qualcuno pronuncia apedáli, apedális ‘coetaneo’. I vecchi ancora lo interpretano correttamente, non si pongono problemi, sentono naturale ed ovvio pronunciarlo e intenderlo in tal modo. Ma i loro figli quarantenni, oggi inesorabilmente contagiati dalla lingua italiana, cominciano ad avere imbarazzo a gestire il lemma, poiché non riescono più ad agganciarlo a qualcosa che non sia l’it. pedale ‘organo che trasmette energia col piede’, e sentono quel apedáli, avedáli come un complemento italiano di mezzo o strumento = a pedale ‘mediante il pedale’. In tal guisa tendono ad abbandonare il lemma, a sostituirlo, perché ingestibile. Questo caso è diverso se lo trasliamo nel Logudòro, dove lo stesso lemma, non agglutinato con la preposizione, viene detto fedále, quindi è compreso ed ancora utilizzato dai giovani. La differenza di quest’uso tra il Campidano e il Logudoro è antichissima, non è questione di oggi, avendo la base, per il Logudòro, nell’akk. pâdu(m) ‘legare’, ‘imprigionare’, pīdu ‘imprigionamento’, da cui fedále col significato di ‘legato (assieme)’ + suffisso latineggiante -le. In Campidano si preferì in origine una maggiore chiarezza sintattica, e fu prefissa la particella akk. a (il cui significato fu ed è ancora uguale nel Mediterraneo: cfr. gr. a, ana, it. a), ottenendo la forma akk. a-pīdu ‘lego assieme’ + suff. latineggiante -li > apidáli > apedáli.
Quanto agli articoli determinativi, nel dialetto campidanese il fenomeno di sandhi è percepibile specialmente col plurale, per cui si sente (e si legge) molto spesso i sógus al posto del corretto is ógus ‘gli occhi’, i mottus al posto del corretto is mortus ‘i morti’ (il fenomeno si estende da Quartu a Seùlo, ossia per mezza Sardegna).
La Sardegna – al pari di ogni altra nazione – ha il vocabolario colmo di paronomasie, le quali diventano ipso facto paretimologie. La paretimologia, o falsa etimologia o etimologia popolare, è l’attivazione (la creazione ragionata) di una etimologia operata a spese del passivo vivacchiare della paronomasia, nel senso che la paronomasia – nientaffatto intesa come tale – viene assunta come base obbligata per estrarre il significato di una parola. Faccio al riguardo qualche esempio.
MANUGGIU ‘E COSCIA. indica l’adenite venerea. Zonchello non dà l’etimologia e non dà neppure la traduzione del termine, lasciando subliminalmente che il parlante traduca automaticamente. Indubbiamente in sardo c’è un termine omofono, mannùgiu, che significa covone di grano. Ma non c’è relazione tra il covone e il rigonfiamento dell’inguine prodotto dall’atto sessuale. Siamo alla solita omofonia, accettata ciecamente e senza discussione, così come avviene sempre nella storia di una lingua, dove un relitto arcaico è adattato a un termine più noto; ciononostante il relitto resta intatto nella fonetica originaria, lo si usa nel discorso perchè fa parte della langue, del patrimonio riconosciuto dalla comunità, la quale non si pone affatto il problema delle origini diverse di due omofoni. Ne riconosce la differenza nella catena parlata, e ciò basta. E allora spetta a noi una traduzione scientifica.
Còscia è italianismo; manùgiu, manùggiu è composto accadico di manû, mēnum ‘love’ + uggu(m) ‘rabbia, furia’: man-uggu, col significato di ‘furia dell’amore’. È un composto del tipo cozzòne inkiétu ‘epididimite, orchite’ (letteralm. coglione arrabbiato), dove ritorna, seppure all’italiana, il concetto di rabbia, insofferenza, furia.
È la paronomasia a mettere in relazione identitaria (paretimologica) due vocaboli (quello antico versus quello moderno, oppure un vocabolo sardo versus quello italiano). Per capire come s’instauri facilmente la paronomasia, basta vedere cosa accade tra molte parole italiane attuali (in specie quelle scientifiche) e la loro pronuncia sarda:
contrafanéu ‘controveleno’
sa mori ‘l’umore’ (mori in sardo è il ‘sentiero’ e mori, more significa anche ‘amore’)
su braxóu ‘l’orzaiolo’ (in it. l’equivalente fonetico è il bracciolo; ma in sardo braxóu è la ‘culla’)
Achilloni ‘empiastro Diachilon’ nella Farmacopea per gli Stati Sardi, Torino, 1853, p. 166
strobbàda ‘(donna) disturbata’ ossia ‘donna mestruata’ (ma si noti il termine scientifico strobo…)
murènas ‘emorroidi’ paronomasia di murèna (un pesce)
arrému ‘arto’ paronomasia di arrému ‘remo’
pilu ‘e titta ‘mastite’ intesa come ‘pelo nel seno’: paronomasia
pierìttu ancora ‘mastite’, allotropo oristan. di log. pilu ‘e titta, sentito come attrazione dall’ipocoristico Pierino!
frammentu ‘lievito del pane’ (ma in it. indica il ‘pezzo, frammento’!).
PILU ‘E TITTA. Per brevità, tra queste dieci parole esplico soltanto l’etimologia di pilu ‘e titta o filu ‘e titta o pieríttu, che in Sardegna designa la ‘mastite’ = ‘indurimento della mammella’. Il termine pilu non è latino ma neo-bab. e neo-assiro, dove pīlu, pēlu significa ‘calcare, pietra calcarea, blocco di calcare’. Non a caso per la mastite si dice che sa titta est appedráda ‘la mammella è indurita come pietra’. L’espressione pilu ‘e titta è integralmente semitica, poichè anche titta è babilonese col significato di ‘nutrimento, cibo’ (tîtum). Il sardo titta in origine significò letteralm. ‘cibo’, poi per traslato ‘mammella’. Quanto alla variante pieríttu, pierìtta, essa non è altro che la costipazione campidanese di pilu ‘e titta > pi(lu) ‘e ritta, con normale rotacizzazione della /t/.
YPERBOREI. Per chiudere l’argomento, mi accomiato dal lettore con la gustosa storiella degli Yperbòrei, gr. Ὑπερβόρεοι, un popolo favoloso che si riteneva vivesse perfettamente felice in una terra dove il sole non tramontava mai. Il termine, come vedremo alla fine, è sumerico; eppure, manco a dirlo, fu uno dei primi ad essere fagocitato dai Greci che lo tramandarono come composto di ὑπέρ ‘oltre’ e Βορέας ‘vento del nord’. Come Yperbòrei i poeti indicarono ‘coloro che vivono più a nord’ o ‘quanto si trova più a nord’. Virgilio e Orazio parlano di Hyperboreae orae e di Hyperborei campi. La favola degli Iperbόrei costituiva una delle forme poetiche nelle quali si esplicò la tradizione mitica di uno stato di perfetta felicità e innocenza, collocato solitamente o in un passato favoloso o a distanze inattingibili. «La leggenda delfica narrava che Apollo passava presso gli Iperbόrei i mesi invernali, circondato dalla venerazione e dall’affetto degli abitanti di quelle remote regioni, che inviavano poi le loro offerte al santuario di Delo, primizie di grano che giungevano nell’isola dopo un lungo e complesso itinerario… Prevale l’impressione che gli Iperborei siano prima di tutto una suggestiva invenzione poetica»5.
La prima citazione degli Iperbόrei compare nell’Inno omerico 7 a Dioniso. Cenni sulla beatitudine della loro esistenza si leggono in Pindaro, Pitica 10. Il racconto delle offerte inviate al santuario di Delo ci è noto da Erodoto (4.33,35) e da Callímaco (Inno a Delo). Altre notizie e cenni compaiono in Pausania, Strabone, Plinio il Vecchio, Pomponio Mela e nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (4.611 ss.).
Nella questione degli Iperbόrei (meglio Yperbόrei) alcuni elementi vanno inquadrati con più serietà, al fine di sottrarli all’abbraccio mortale di quanti (a cominciare dagli stessi Greci) trattarono l’etnico secondo la legge della paronomasia e col metro della sola lingua greca (teoria della partenogenesi), catalogandoli come “coloro che stanno al di là del vento del nord”, praticamente al Circolo Polare Artico. Da questa primordiale paronomasia in salsa greca ebbe la stura tutta una tradizione poetica caotica e inverosimile, dove ogni opzione veniva assunta liberamente, e nessuno ebbe voglia di meditare sul testo dello storico Erodoto, il quale parlò chiaramente dei viaggi che gli Yperbόrei facevano via mare verso Delo per recarvi grano.
Il grano non nasce nel Circolo Polare Artico. E poi, che giri assurdi avrebbe dovuto fare questo popolo al fine di recare all’isola prediletta una merce vile, un semplice cereale? Non era meglio riempire le navi con ambra? La ragione di questo modesto carico doveva essere sacrale, e la patria di questi navigatori non poteva essere inquadrata che nel bacino mediterraneo. Altro elemento che cozza con l’assurda pretesa di vedere gli Yperbόrei come felici abitanti della zona più fredda e tenebrosa del mondo, è il fatto che essi andavano a Delo a venerare il dio Apollo, il dio della Luce, il dio-Sole. Per quale assurdo vizio mentale i poeti vollero imporre a questo dio i riconoscenti viaggi di contraccambio nel Regno delle Tenebre e dei freddi perenni? La legge della paronomasia esiste da quando esiste il linguaggio, e il nome degli Yperbόrei si prestò bene a questo strazio nell’ambito della mitologia, la quale s’aggrappò al concetto di “al di là della Borea” per ricamarci le poetiche più astruse, le quali neppure badavano al fatto che nel paese degli Yperbόrei il sole non tramontava mai (il contrario di quanto avviene al Polo).
In realtà l’etnico Yperbόrei è sumerico, ed ha la base nel composto u-par-bur: u ‘mondo, territorio’ + par ‘canaletta d’irrigazione’ + bur ‘abbagliare, accendere, brillare’ (vedi akk. būru, ‘a word for sky’), col significato di ‘territorio irriguo abbagliato (dal Sole)’. Poichè gli Yperbórei andavano a Delo con la nave, pare evidente che la loro patria stesse nel Mediterraneo.”
Fonte: Grammatica della Lingua Sarda Prelatina, Salvatore Dedola
[1.3 La legge della paronomasia]