Approfondimenti
Pillole di storia del vino, dei vigneti e della vinificazione tra Sardegna e Vicino Oriente

“Ebbrezza di Noé”, Michelangelo Buonarroti
La vite è sempre stata di casa in Europa, in Sardegna, nel medio-basso Mediterraneo. Dai ritrovamenti archeologici fino alla Carta de Logu e alla Bibbia, le tracce della storia dei vitigni e della vinificazione sono le più varie e affascinanti.
Item ordinamus, chi dognia persona, chi hat a haviri vingia, over ortu, illu deppiat cungiari over de muros, over de fossu, over de clesura; e cungiadu chi hat a esser, illu deppiat fagheri provvidiri peri sos Jurados predittos, chi hant a esser a ciò allettos, e deputados… “Inoltre ordiniamo che ogni persona che avrà vigna, oppure orto, lo debba cingere con muro o fossa o siepe; e dopo cinto lo deve far controllare dai predetti Giurati pubblici, a ciò eletti e deputati…” (Carta de Logu, cap. 134).
Volemus, ed ordinamus, chi cussu pubillu de vingia, over de ortu, chi hat a esser approvadu, e recividu pro cungiatu, …chi hat a acattari bestiamen domadu, over rudi in alcuna dessas dittas vingias, over ortos approvados pro cungiados, siat tentu, e deppiat in poderi suo su dittu bestiamen occhiri… “Vogliamo e ordiniamo che il padrone di vigna od orto che sarà stato approvato e ricevuto per chiuso,… il quale ritroverà bestiame domato o rude in alcuna di dette vigne od orti approvati per chiusi, sia tenuto e debba, per quanto è in suo potere, uccidere quel bestiame…” (Carta de Logu, cap. 135).
Sono numerosi i capitoli ed i passi della Carta de Logu che citano le vigne. Questi due capitoli, assieme ad altri, vi sono espressamente dedicati. Il Giudice Mariano, che anticipò il Codice Agrario, e sua figlia Eleonora che perfezionò l’intero Corpus Juris dell’Arborèa nel primo Quattrocento, furono severissimi contro coloro che avessero introdotto il bestiame, o lo avessero lasciato libero di introdursi, nelle vigne. Le vigne e gli orti venivano accatastati presso i giurati pubblici, e l’evento era reso noto alla collettività (cap. 134). Non si guardava in faccia a nessuno quando si uccideva (obbligatoriamente) il bestiame invasore, fosse pure di proprietà del Giudice.
I commentatori sono rimasti interdetti per questa regola draconiana, mirante ad una protezione assoluta delle vigne (e degli orti) a scapito dell’economia pastorale. Ma costoro non si sono resi conto, a quanto pare, di com’era veramente strutturata l’economia primaria ai tempi di Eleonora d’Arborèa. Gli studi in materia sono carenti nell’indagine del non-detto, nel dare cioè corpo alle ombre lunghe gettate dal testo. L’analisi in filigrana del testo consente di entrare in una storia che sembra appartata nel silenzio, e con l’intuizione e l’interpretazione siamo in grado di capire che il rigore inflessibile nel proteggere le vigne era funzionale a un fatto che le leggi non potevano mettere in chiaro: il Regno di Arborèa aveva un suo preciso peso nel commercio internazionale dei vini, e non aveva alcuna intenzione di rendere carente o insicuro questo comparto.
Peraltro anche l’analisi etimologica degli oltre cento nomi di vitigno (e di vino) ci porta alla stessa conclusione. Più oltre spiegherò che tutti i nomi delle viti presenti in Sardegna (escluse quelle poche introdotte negli ultimi 60 anni) sono autoctoni, sono stati creati su suolo sardo fin da epoca arcaica, forse già 10.000 anni fa. Ciò porta a chiedersi che interesse ebbero i Sardiani a plasmare puntigliosamente oltre cento nomi, se non quello di marcare orgogliosamente un fatto che (letto anch’esso in filigrana) conduce ad una constatazione stupefacente. I Sardiani avevano coscienza che le uve ed i vini prodotti nel territorio sardo erano non solo di una bontà indiscussa, ma che tale bontà era un patrimonio diffuso e documentato da tanti vitigni l’uno dall’altro distinti, conservati e tramandati da millenni, da epoche che sfumavano nel mito.
Ma perchè la Sardegna ha oltre cento nomi di viti autoctone, mentre le altre regioni d’Italia ne hanno molti di meno? Inoltre mi chiedo perchè nelle regioni donde si crede originaria la vite i loro nomi siano quasi inesistenti?
Dove ci fu letteratura, in essa si celebrarono pure i vini. Isaia seppe imprimere sensi di alta poesia al celebre Canto della vigna.
Canterò per il mio diletto
il mio cantico d’amore per la sua vigna.
Il mio diletto possedeva una vigna
sopra un fertile colle.
Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi
e vi aveva piantato scelte viti;
vi aveva costruito in mezzo una torre
e scavato anche un tino.
Egli aspettò che producesse uva,
ma essa fece uva selvatica. (Is V 1-2)
Non è da meno il Cantico dei Cantici 1,6:Mi posero come custode delle vigne; lo stesso Ct al passo 3,5 recita ancora: Sostenetemi con focacce d’uva passa (pan di sapa), ristoratemi con mele, perchè io sono malato d’amore.
Normalmente la vite viene citata dalla Bibbia soltanto col nome generico (Gn 9,20; Dt 8,7-8; Is V 1-2; Amos 9,13; Giov 15,1-2). Possiamo aggiungere però che gli Ebrei dicono tiroš per ‘vino’ ( תִּירוֹשׁ ), da cui pare provenga il nostro ampelonimo (e vino) Ziròne, ambedue con base nell’akk. ṭīru che indica un non meglio precisato genere di ‘alberello’ (ma è meglio l’aggettivo akk. ṣīru(m) ‘esaltato, supremo, splendido, eccellente; di alta qualità’). Dobbiamo inoltre ricordare che l’ebraico nāsaq ( ךּ סַ נַ ) significa ‘versare (il vino), fare libagione, offerta di vino’: tutto ciò riferito specialmente al vino delle offerte, al vino sacro (oggi diremmo vino da messa). Proprio da ciò derivò il nostro ampelonimo Nasco. Non dobbiamo poi dimenticare il vino sardo Pascàle, dal nome autoreferente, che richiama la Pasqua. La Pasχa (ebr. Pesaχ) è la più grande festa ebraica, quella in cui è consentito persino ubriacarsi. Il ‘vino pasquale’ dev’essere dunque il migliore in assoluto.
Isaia scrisse il suo brano intorno al 730 av.C. Ma fu Noè ad introdurre la coltura della vite, secondo il mito biblico.“Noè cominciò a essere lavoratore della terra e piantò la vigna. E bevve del vino e s’inebriò” (Gn 9,20).
L’esistenza del celebre Patriarca risale a molti millenni prima di Cristo: come dire che la coltivazione della vite nel Vicino Oriente si perde nella notte dei tempi. Dal che si capisce quanto fosse espansa la coltivazione nella Mezzaluna Fertile.
Il fatto che spremendo l’uva si ottenesse una bevanda piacevole, è una scoperta che dovrebbe risalire al Paleolitico; la rudimentale vinificazione dell’uva selvatica precedette la coltivazione della pianta. Gli uomini del Neolitico pigiavano l’uva insieme a bacche di rovo, lampone e sambuco, in fosse scavate nella terra e rivestite d’argilla. Secondo scavi condotti in Libano, Turchia e Siria, tracce della parte più interna degli acini d’uva potrebbero essere datate già all’inizio dell’VIII millennio. L’antichità della scoperta del processo è confermata dal ritrovamento (nel 1991) di tracce di vinificazione all’interno di vasi fra le strutture del villaggio neolitico (5400-5000) di Hajji Firuz Tepe sui monti Zagros (Turchia). Le più recenti ricerche condotte in varie località dell’arcipelago greco farebbero risalire al III millennio la preparazione del vino in quell’area. Lo stesso può dirsi per l’Antico Egitto, come testimoniano i monumenti egizi con scene di vinificazione.
Da questo excursus si nota che la vite è sempre stata di casa nell’Europa meridionale e nel medio-basso Mediterraneo. Probabilmente già cento milioni di anni fa, con l’inizio dell’Era Terziaria, esistevano le vitacee le quali, dopo le fasi glaciali del Pleistocene, si conservarono solo in alcuni territori, compresi quelli asiatici e americani. La paleontologia dimostra che la vite esiste nella penisola italiana almeno dal principio del Quaternario (ca. 2 milioni di anni).
Da “La Flora della Sardegna – etimologie”, di Salvatore Dedola, cap. 3 “Autoctonia ed Etimologia degli ampelonimi sardi”, par. 3a “Premessa”