Approfondimenti
Viaggio geo-cosmico dell’uomo: “Alchimie dell’Anima” tra Piramide, Nuraghe e Ziqqurat

Al Nuraghe Losa (Abbasanta), l’installazione di Nicola Marongiu con alcune opere del progetto artistico “Sa Sartiglia” (in alto a destra l’opera “Nur”), parte del documentario “Sardegna Tempio delle Acque (qui la preview), in una foto di Cinzia Carrus (qui la galleria completa del “Making of”).
“Torri, Nuraghi, Ziqqurat e Piramidi testimoniano di una credenza irriducibile: l’anima è immortale e vive eternamente in un edificio ciclopico. Ogni edificio antico era, quindi, un luogo dell’anima. Dagli egizi l’anima era chiamata Ba. I mesopotamici la chiamavano Dur, i nuragici, forse, Nur (Luce). Successivamente, dai greci fu chiamata Psychè. In un vertiginoso andare avanti e indietro nei millenni l’autore insegue il mito dell’immortalità dell’anima così come esso apparve per la prima volta in Mesopotamia, nell’Egitto delle Piramidi e nella Sardegna Nuragica. Il sogno di Iolao, la conquista dell’immortalità, è quello stesso di Gilgamesh, di Sargon e di Cheope: conoscere i segreti dell’universo, mettere in salvo l’anima, vivere in eterno. Partendo dal mondo antico e con un sguardo attento ai dettami dell’antropologia religiosa, dell’alchimia delle origini e della psicologia junghiana, il confronto sui temi dell’altrove, della morte e dell’anima prosegue con Platone, Aristotele, Teilhard de Chardin e, più in generale, con le grandi religioni della modernità: ebraismo, cristianesimo, islamismo, induismo e buddismo”. Proponiamo un estratto dal libro del filosofo Giorgio Baglivi: “Alchimie dell’anima – eternità e immortalità dell’anima in Mesopotamia, nell’Egitto delle Piramidi e nella Sardegna dei Nuraghi”, dal capitolo 3, parte del paragrafo titolato “L’edificare sacro nella Sardegna Nuragica”.
L’archetipo del “destino” ha, forse, una spiegazione un po’ più semplice rispetto a quanto pensava Jung. Ecco, a un dipresso, qual è la mia idea. Gli esseri umani hanno almeno quattro milioni di anni, calcolando solo la nostra storia evolutiva sulla Terra e non l’istante in cui le componenti fondamentali della vita giunsero sul nostro pianeta (in realtà la vita tout court giunse sulla Terra cinque miliardi di anni fa circa). A tutto questo lunghissimo tempo occorrerebbe aggiungere gli anni (almeno dieci miliardi) della vita della stella che ci ha messo al mondo e il viaggio nello spazio che le componenti di base della vita hanno dovuto compiere (almeno altri cinque miliardi) per giungere fino a noi dopo la morte e l’esplosione della stella madre. Il totale dovrebbe dare venti e più miliardi di anni se consideriamo l’intera peripezia geocosmica dei componenti di base della vita. Noi, dunque, siamo “vita” in viaggio, esseri celesti-terrestri in cammino da almeno venti miliardi di anni, tanti quanti ne sono occorsi per formare il nostro cervello, una struttura paragonabile ad almeno ventimila potenti calcolatori in connessione fra loro e capaci di tutto: tutta l’intelligenza e tutta la stupidità possibili, tutto l’amore e tutto l’odio possibili, tutta la genialità e tutta l’idiozia possibili. Noi siamo erranti cosmici. Ci sono voluti venti miliardi di anni per fare un essere umano e tutto questo tempo incalcolabile è depositato nell’inconscio. E’, quindi, abbastanza legittimo ipotizzare che il tracciato all’origine della vita, nello scenario composto di cielo e terra, si sia semplicemente impresso nell’inconscio degli esseri umani con caratteri indelebili. C’è Dio alla base di tutta questa indicibile peripezia oppure è tutto frutto del caso? Non possiamo saperlo. Ad ogni buon conto, non c’è alcun bisogno di scomodare il supposto carattere trascendente o religioso della mente. Nel profondo tutti noi sappiamo di dover a una stella (e sia pure a una cometa) la nostra nascita e, al contempo, di dovere alla Terra la nostra crescita. Ed è questa simmetria celeste e terrestre che cerchiamo eternamente con tutta la sofferenza dell’anima. Facendo ricorso ad una facile battuta potremmo anche dire che gli extraterrestri si sono già manifestati su questa Terra: gli extraterrestri siamo noi! Siamo tutti immigrati su questo pianeta, siamo tutti ospiti. Se vale l’ipotesi del viaggio geo-cosmico all’origine della vita, potremmo concludere che gli dei, le creature celesti, i miti della discesa e della risalita, i simboli diairetici, le scale, le torri, i nuraghi, le ziqqurat, le piramidi e, mutatis mutandis, le chiese, le cattedrali, le guglie, i pinnacoli, l’eschaton e così via, sono tutti “materiali comparativi”, “immagini analoghe”, “metafore geo-cosmiche”, mediante le quali il ricordo ancestrale del viaggio celeste testimonia in noi la sua origine. D’altra parte, se una stella (o una cometa) è stata la madre di tutti noi, la Terra ne è stata la culla. Senza l’acqua gli elementi della vita non avrebbero avuto alcuna possibilità di attechire. Ed ecco l’archetipo della coniunctio oppositorum, così ben praticato dagli antichi, evidenziare anche immagini di discesa. Ecco i labirinti, i pozzi, le lande oscure, le grotte, lo sprofondamento, l’acqua, la terra, l’humus. La storia di tutti noi impressa per sempre in forma di immagine. Se l’archetipo geo-cosmico è uno, le manifestazioni di esso sono state, è vero, varie e mutevoli, ma il filo d’oro della simiglianza sembra essere inequivocabile: culti del sottosuolo, riti e culti dell’acqua, osservazioni del cielo e delle stelle, calcoli astronomici, dée, déi, antenati mitici, divinità olimpiche, miti platonici, discese, risalite, sprofondamenti, resurrezioni, apparizioni, nuove nascite e così via. Come ad avvalorare l’ipotesi della radice geocosmica dell’archetipo, ecco l’antichità megalitico-ciclopica consegnarci una pletora di immagini numinose, tutte in qualche modo legate alla nostalgia del cielo e alla bramosia della terra. Gli Egizi avevano Maat, Amon, Atum, Ptha, il Ba, il Cielo, le Costellazioni, l’Ibis, ma anche Osiride (il dio che muore e che rinasce), il ferro cosmico e poi le grotte, le camere sotterranee, i budelli, gli abissi e tante altre figure cariche di sacralità geo-cosmica. I Nuragici avevano la Grande Dea del Cielo e della Terra, gli Antenati, l’acqua, le torri, le cupole, i pozzi, i betili. I Mesopotamici avevano le tholoi, i templi fra cielo e terra, gli déi, le sacerdotesse, le Ziqqurat.
Per gli Accadi, il divino era concepibile solo nella relazione geo-cosmica. Anche Sargon sognava di inerpicarsi, dopo morto, lungo l’albero cosmico per conquistare l’immortalità. Perchè, poi, è in questo modo che si è sempre manifestato l’archetipo della congiunzione fra il cielo e la terra: dopo una discesa c’è sempre la risalita; dopo un naufragio, c’è sempre un affioramento; dopo una caduta c’è sempre una ripresa; dopo una dissoluzione c’è una resurrezione. Non siamo mai soli e sconfitti in questo mondo.
Almeno nel pensiero profondo dovremmo, quindi, ritenerci tutti uguali e tutti fratelli perchè tutti coinvolti, da miliardi di anni, nel viaggio terrestre e celeste del nostro spirito (carbonio in primis). Purtroppo, da duemila anni a questa parte, il mondo è in fiamme. La proprietà privata ha messo gli uomini l’uno contro l’altro. Le ultime due guerre mondiali sono stati immani catastrofi. Sarà per questo che alcuni autori (anche nostrani!) hanno applicato l’etichetta del “bellicismo” a tutte le epoche e a tutti i popoli? Il mondo antico doveva essere estremamente tollerante, sia nell’accogliere i migranti, sia nel consentire a tutti di pregare i propri numi senza eccessive preoccupazioni, confrontando le proprie immagini con quelle degli altri, le proprie funzioni percettive con quelle degli altri, le proprie simmetrie con quelle degli altri. A quel tempo tutti mangiavano il frutto dell’albero della conoscenza senza per questo sentirsi in colpa. L’anima arcaica, sovrana unica del regno delle immagini, non era nè razzista nè xenofoba. Una visione troppo idilliaca del passato? Può darsi. Resta il fatto che è negli ultimi duemila anni che per difendere il proprio patrimonio di immagini gli uomini si sono spesso ammazzati fra di loro e ciò soprattutto quando hanno scambiato per verità assolute le proprie verità, per immagini assolute le proprie immagini, per divintà assolute le proprie divinità. Per difendere i propri dogmi, ad esempio, la chiesa cattolica non ha esitato ad uccidere. Chi? Poveri infelici il cui unico torto era quello di avere immagini difformi da quelle dell’istituzione religiosa dominante. Se dovessimo riassumere con un solo termine la religiosità di questi ultimi, dovremmo pronunciare la solita parola: desiderio. Desiderio di cogliere l’immensità geo-cosmica senza mediazione alcuna. I preti, però, non potevano sopportarlo. Il fuoco che divorò Giordano Bruno ancora cova sotto la cenere. Un coraggioso teologo cattolico dei nostri giorni, V. Mancuso, non ha alcuna esitazione ad ammetterlo: “Per la gran parte della sua storia, si può dire che dal V al XX secolo, la chiesa ha lottato contro la libertà di coscienza in maniera religiosa, arrivando anche a far uccidere chi la pensava diversamente”. Ottima riflessione questa del teologo cattolico!
Giorgio Baglivi, “Alchimie dell’anima – eternità e immortalità dell’anima in Mesopotamia, nell’Egitto delle Piramidi e nella Sardegna dei Nuraghi”, cap. II, par. 3: L’edificare sacro nella Sardegna Nuragica, pagg. 158-160